1979: polveriera Iran. La caduta dello scià di Persia
Il 1979 si apre con diversi fatti di cronaca estera, ma quello che più di tutti interessa la stampa italiana è un colpo di scena a livello internazionale: dopo 37 anni di regno lo Scià di Persia abbandona l’Iran. E’ una breve cerimonia di commiato per Reza Pahlavi e Farah Diba, visibilmente commossi, quella che precede la loro partenza per l’Egitto. A narrare l’addio del monarca e della sua dinastia al potere per quasi mezzo secolo di storia, un maestro del giornalismo italiano: Igor Man, inviato a Teheran per il quotidiano La Stampa di Torino, che in apertura, in prima pagina, scrive: “Lo Scià se ne va lasciando i suoi fidi (e i suoi complici) nel marasma più totale. Nei suoi trentasette anni di regno si è avuto un morto ogni quarantotto minuti. 4900 sono i giustiziati, 125mila i prigionieri politici e i morti assommano 365.995. Se ne va lasciando dietro una scia sanguinosa e un castello di sogni infranti che si compendiano in queste date. 1963: varo della “rivoluzione bianca”; 1973: lancio dei piani per una industrializzazione accelerata che deve trasformare l’Iran in una potenza mondiale; 1977: la produzione cade, l’inflazione divora stipendi e salari, aumenta la disoccupazione e comincia a serpeggiare la rivolta che scoppia nell’estate del 1978” .
Una dinastia, quella dei Pahlavi, durata mezzo secolo e considerata da più parti, da giornalisti, storici e analisti di politica estera, la più breve tra quelle che hanno regnato sulla Persia preislamica e poi islamica (dal 1935 ufficialmente Iran). Fu il generale Reza Khan (proclamato Scià dal parlamento con il nome di Reza Pahlavi) ad impadronirsi del potere nel febbraio del 1921, marciando con la sua storica brigata di “cosacchi” persiani su Teheran e instaurandovi un governo nazionalista, del quale egli stesso deteneva il controllo effettivo. Di fatto Reza Khan riuscì a riportare l’ordine nel Paese stroncando per sempre il prepotere delle tribù che spadroneggiavano. Si dedicò a un’opera di rinascita sulla scia di quanto fatto da Kemal in Turchia, ma senza la accentuazioni occidentalizzanti. In quegli anni si svilupparono le comunicazioni, l’industria, la sanità e l’istruzione.
Tuttavia, secondo il corsivo di Ferdinando Vegas sul quotidiano La Stampa di Torino:«Reza commise l’errore fatale, durante la Seconda guerra mondiale, di propendere per la Germania; un errore che, nel 1941 costò all’Iran l’occupazione anglo-sovietica e allo Scià la perdita del trono (morirà nel 1944 in esilio in Sud Africa)» . Gli succedette il figlio di ventidue anni Mohamed Reza, che annunciò di voler seguire «la via migliore» ma questo impegno non fu mantenuto nel lungo regno del secondo e ultimo Pahlavi che di Khomeini aveva detto: «Lo lascerò dov’è, fino a farlo marcire» . Ma il grande vecchio seppe aspettare e la storia confermò quello che i titoli dei giornali scrissero in quel convulso 1979. Sotto la notizia della partenza-fuga di Reza Pahlavi, i quotidiani dell’epoca riportarono la parola d’ordine dell’ayatollah: «Tutti in piazza venerdì per la più grande manifestazione della storia iraniana. I parlamentari si dimettano. Il consiglio del re venga sciolto. I contadini badino che le derrate alimentari non finiscano in mani straniere. I soldati impediscano af ogni costo la partenza delle armi sofisticate americane» .
Un monito che si aggiunse dopo neanche una settimana alla notizia del blocco dell’aeroporto di Teheran ad operano dei militari. E’ il 25 gennaio 1979 e l’inviato de l’Unità Siegmund Ginzberg scrive sulla prima pagina del quotidiano fondato da Antonio Gramsci: “L’aeroporto di Teheran è stato bloccato dai militari. In un primo momento con la scusa formale di ragioni meteorologiche e per soli quattro giorni fino a domenica. Ma la pretestuosità della motivazione è stata dimostrata dal susseguirsi, durante tutta la giornata di comunicati contradditori sulla massiccia operazione militare all’aeroporto”.
I giornali della sera hanno parlato di chiusura a tempo indeterminato; un successivo comunicato del governo ha parlato di chiusura “per alcune ore” per impedire “un attacco di malintenzionati” aggiungendo che lo scalo sarebbe stato regolarmente in funzione. Ma a tarda sera l’aeroporto era sempre occupato dai carri armati e verso mezzanotte, in un notiziario straordinario, la radio ha diramato un comunicato del governo in cui si annunciava la chiusura di tutti gli aeroporti iraniani per tre giorni a partire dalla mezzanotte. Nella notte un commando ha sabotato la strumentazione dei due Jumbo 747 dell’Iran Air che dovevano andare a Parigi per imbarcare l’ayatollah Khomeini .
Una notizia che sottolineava i momenti convulsi e confusi in cui era piombato l’Iran in corsa verso un giorno che avrebbe definitivamente segnato la storia dell’ex Persia: l’11 febbraio 1979. Alle 11 del mattino la resa della Guardia imperiale dello Scià e l’apertura delle porte del palazzo di Niavaran, simbolo di un potere millenario. I guerriglieri islamici non trovano alcuna resistenza da parte del vecchio regime. Si insedia il primo ministro del governo provvisorio Mehdi Bazargan, subito riconosciuto dall’Unione Sovietica. Quanto agli Stati Uniti, il presidente Jimmy Carter, dichiara di essere pronto a stabilire momenti di dialogo e di collaborazione con il nuovo governo di Teheran. In realtà c’è preoccupazione. Dalle rovine dell’impero di Reza Pahlavi c’è la «Paura di una “Guerra santa” del petrolio» come titola il Corriere della Sera del 13 febbraio 1979. In un corsivo pubblicato al centro della prima pagina Michel Foucalt riflette: “11 febbraio 1979: rivoluzione in Iran”. Questa frase ho l’impressione di leggerla nei giornali di domani e nei futuri libri di storia. E’ vero che in questa serie di strani avvenimenti che hanno caratterizzato gli ultimi dodici mesi della vita politica iraniana una figura nota, infine, appare. Ma questa lunga successione di feste e di lutti, questi milioni di uomini nelle strade ad a invocare Allah, i mollahs nei cimiteri che gridano la rivolta e la preghiera, questi sermoni distribuiti in minicassetta, ed il vecchio che ogni giorno attraversava la strada in una cittadina della periferia di Parigi per inginocchiarsi in direzione della Mecca: tutto questo ci era difficile chiamarlo «rivoluzione».
Oggi ci sentiamo in un mondo più familiare: ci sono state delle barricate; delle riserve di armi saccheggiate; ed un consiglio riunito in fretta ha lasciato ai ministri solo il tempo di dare le dimissioni prima che le pietre spaccassero i vetri e che le porte cadessero sotto la spinta della folla. La storia ha posto in fondo alla pagina il sigillo rosso che autentica la rivoluzione. La religione ha svolto il suo ruolo di sollevare il sipario; i mollahs ora si disperderanno in un grande volo di abiti neri e bianchi. La scena cambia. L’atto principale sta per cominciare: quello della lotta di classe, delle avanguardie armate del partito che organizza le masse popolari, eccetera .
Da New York, Ugo Stille, riporta le dichiarazioni del presidente Usa: «Come in passato il nostro obiettivo è un Iran stabile ed indipendente che mantenga buoni rapporti con gli Stati Uniti. Noi speriamo che i contrasti che hanno diviso il popolo iraniano per tanti mesi possano adesso venire chiusi» .
Un auspicio quello del presidente Usa che non inciderà più di tanto sulla politica internazionale né tantomeno sull’economia mondiale. I prezzi del greggio, anche in Italia, registrano un incremento e la notizia come di consueto viene data da tutte le pagine economiche dei quotidiani italiani, sia nazionali che locali. «Carter, Begin e Sadat firmano domani una pace molto fragile» titola il quotidiano romano La Repubblica del 26 marzo in riferimento all’imminente cerimonia della firma del trattato di pace fra Egitto e Israele sotto il porticato della Casa Bianca. Una notizia che fa be sperare per la pace in Medio Oriente dopo i venti di guerra.