21 settembre 1990: l’uccisione di Rosario Livatino
“Da giovani crediamo che il minimo che il mondo ci debba sia la giustizia – dice Marie von Ebner-Eschenbach -, da vecchi ci accorgiamo che è il massimo”. Un insegnamento che Rosario Livatino ha scoperto da giovane e non da vecchio e lo ha fatto proprio fino alla morte. Nell’agenda di Livatino del 1978 c’è un’ invocazione sulla sua professione di magistrato, datata 18 luglio, che suona come consacrazione di una vita: «Oggi ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige». Fede e diritto, come Livatino spiegò in una conferenza tenuta a Canicattì nell’aprile 1986 ad un gruppo culturale cristiano, sono due realtà «continuamente interdipendenti fra loro, sono continuamente in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile». Forse è per questo che “il giudice ragazzino” tanto per citare un film tratto dall’omonimo libro di Nando Dalla Chiesa, attrae così tanto i giovani. Tutta la sua vita è un inno ai valori, primo tra tutti quello della giustizia. Rifacendosi ad alcuni passi evangelici, Livatino osservava come Gesù affermi che «la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali». Ancora su questo aspetto, Livatino dichiarava: «Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere ‘giusti’, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha, invece, elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano». Rispetto al ruolo del magistrato, nella stessa conferenza, Livatino affermava: «Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata».
Rosario Livatino cercava di guardare tutti, mafiosi e criminali compresi, con gli occhi di Dio. Fede e diritto, nella storia di questo giovane magistrato agrigentino ucciso dalla mafia nel 1990, sono due realtà interdipendenti e indispensabili. E anche per il suo modo cristiano di interpretare il ruolo di giudice, Papa Giovanni Paolo II, dopo avere incontrato i suoi genitori, disse dei morti per mano della mafia: «Sono martiri della giustizia e indirettamente della fede».
E, infatti, Livatino è stato scelto come testimone della Chiesa siciliana al Convegno Ecclesiale nazionale di Verona. Basta guardare la sua biografia e consultare gli archivi dei tribunali dove prestò servizio per comprendere quanto intensa e difficile fu la sua attività professionale. Nasce a Canicattì, in provincia di Agrigento, il 3 ottobre 1952. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo il 9 luglio 1975, a 22 anni, col massimo dei voti e la lode. Nel 1978 vince il concorso in magistratura e lavora a Caltanissetta come uditore giudiziario passando poi al Tribunale di Agrigento, dove per oltre un decennio, dal 29 settembre ’79 al 20 agosto ’89, come sostituto procuratore della Repubblica, si occupa delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche di quella che poi negli anni ’90 sarebbe scoppiata come la «Tangentopoli siciliana».
Molto rari gli interventi pubblici così come le immagini. Livatino non volle mai far parte di club o associazioni di qualsiasi genere. Rosario Livatino viene ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre ’90 sul viadotto Gasena lungo la Statale 640 Agrigento-Caltanissetta, mentre, senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto, si reca in Tribunale.
Per la sua morte sono stati individuati, grazie al supertestimone Pietro Ivano Nava, i componenti del commando omicida e i mandanti, che sono stati tutti condannati, in tre diversi processi nei vari gradi di giudizio, all’ergastolo con pene ridotte per i collaboratori di giustizia. Rimane ancora oscuro il contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice ininfluenzabile e corretto. Secondo i collaboratori di giustizia, Livatino venne ucciso dagli «stiddari», mafiosi delle province interne siciliane, «per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa nostra» e per punire un magistrato severo e imparziale. Il pensiero di Livatino per la sua formazione ed educazione familiare, si rifà spesso al Vangelo. «La legge – dice, per esempio -, pur nella sua oggettiva identità e della sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali». E ancora: «Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata».