29 luglio 1983: la mafia uccide Rocco Chinnici. Per non dimenticare
“Io credo nei giovani. Credo nella loro forza, nella loro limpidezza, nella loro coscienza. Credo nei giovani perché forse sono migliori degli uomini maturi, perché cominciano a sentire stimoli morali più alti e drammaticamente veri. E in ogni caso sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. In questo tempo storico infatti il mercato della droga costituisce senza dubbio lo strumento di potere e guadagno più importante. Nella sola Palermo c’è un fatturato di droga di almeno quattrocento milioni al giorno, a Roma e Milano addirittura di tre o quattro miliardi. Siamo in presenza di una immane ricchezza criminale che è rivolta soprattutto contro i giovani, contro la vita, la coscienza, la salute dei giovani. Il rifiuto della droga costituisce l’arma più potente dei giovani contro la mafia”. Così Rocco Chinnici, il magistrato ucciso dalla mafia il 29 luglio 1983, in una intervista rilasciata a I Siciliani di Pippo Fava pubblicata nel marzo del 1983, poco prima dell’assassinio. Parole di speranze, forti, di lotta alla droga e alla criminalità organizzata in Sicilia. Un articolo, a firma di Lillo Venezia, che parlava anche di altro e che si apre e si chiude con una domanda da parte del giornalista: Riceve molte minacce, ha paura?
“Nemmeno stavolta il giudice Chinnici risponde – si legge alla fine dell’intervista -. Il sorriso è lo stesso di prima, enigmatico, con una punta impercettibile di ironia, forse di malinconia. E’ un uomo, e come qualsiasi essere umano non può non avere paura. Ma è anche un giudice con l’orgoglio, la coscienza morale di essere un giudice. Cioè un uomo che agisce sempre nel nome del popolo, una moltitudine senza fine che è però sempre un’entità astratta. Un giudice, soprattutto un giudice siciliano in Sicilia, è anche sempre un uomo solo. Orgogliosamente solo”.
Una vita per la legalità, quella di Rocco Chinnici, il cui nome sarà indissolubilmente legato al pool antimafia di Palermo. Nasce a Misilmeri, alle porte del capoluogo siciliano, il 19 gennaio 1925. Completa gli studi superiori negli anni della Seconda guerra mondiale presso il Liceo Classico Umberto I e poi frequenta la Facoltà di Giurisprudenza mentre, per dare sostegno economico alla famiglia nei difficilissimi anni del Dopoguerra, lavora come Procuratore presso l’Ufficio del Registro di Misilmeri. Proprio nel paese d’origine conosce la giovanissima professoressa Agata Passalacqua, lì per un incarico alla scuola media, che sarebbe presto diventata sua moglie.
“Nel 1952 Rocco Chinnici vince il concorso in Magistratura e viene assegnato al Tribunale di Trapani per i due anni di uditorato. Subito dopo assume l’incarico presso la Pretura di Partanna. Proprio in quel periodo nasce la prima figlia Caterina. Questa lunga tappa professionale, che lo porta a diretto contatto con la cittadinanza, segna profondamente la sua personalità, dandogli la possibilità di esercitare le sue grandi doti umane e professionali e di stabilire con la popolazione locale una eccezionale sintonia che lo spinge a ritardare la partenza verso un ufficio giudiziario più grande – si legge nella biografia pubblicata nel sito della Fondazione Chinnici -. In quel felice periodo nascono anche gli altri due figli del Magistrato: Elvira e Giovanni. Rocco Chinnici, chiamato da tutti “Lu Preturi”, diventa sempre più spesso la persona alla quale rivolgersi per avere un aiuto o anche soltanto per ricevere una parola di conforto. La sua mole imponente e l’atteggiamento in apparenza distaccato si sciolgono in calorose strette di mano e affettuosi sorrisi di comprensione e solidarietà”.
Nel 1966 Chinnici lascia la cittadina di Partanna per trasferirsi a Palermo. Da quel momento comincia ad occuparsi di delicati processi di mafia tra cui, nel 1970, quello per la cosiddetta “strage di viale Lazio”. Nel 1975 consegue la qualifica di magistrato di Corte d’Appello ed è nominato Consigliere Istruttore Aggiunto.
In questo contesto drammatico Chinnici ha una intuizione che fa di lui un magistrato particolarmente moderno: sapendo che il giudice è vulnerabile perché se viene ucciso vengono vanificati anche i risultati delle sue indagini, crea nel suo ufficio dei veri e propri gruppi di lavoro (mossa allora rivoluzionaria), dando forma a quello che sarà poi definito “pool antimafia”. Accanto a sé vuole – tra gli altri – due giovani magistrati: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che verrà assegnato proprio a quella VIII Sezione fino a qualche anno prima di Chinnici. Con loro getta le basi delle prime indagini che porteranno ai più importanti processi di mafia degli anni Ottanta. Per tutti, il “Rapporto dei 162”, considerato il nocciolo primordiale del futuro primo Maxi-Processo.
L’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo diviene, sotto la guida di Chinnici, un esempio di efficiente organizzazione giudiziaria: “Un mio orgoglio particolare – rivelava allora il Magistrato – è una dichiarazione degli investigatori americani secondo cui l’Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre magistrature d’Italia. I magistrati dell’Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero”.
Ma Rocco Chinnici non esaurisce la sua attività all’interno delle aule giudiziarie. Riprendendo quel contatto diretto con la gente che aveva caratterizzato il suo lavoro di pretore a Partanna tanti anni prima, ripropone la figura del magistrato impegnato a sensibilizzare in senso antimafioso l’opinione pubblica e le istituzioni. Nel periodo del flagello dell’eroina la sua attenzione si rivolge ai giovani, verso i quali nutre una naturale propensione e un paterno e sincero affetto, in decine d’incontri nelle scuole, impegnando così i suoi – ormai rari – intervalli di tempo libero.
È nel pieno di questa attività professionale, sociale e culturale che il 29 luglio 1983, mentre s’accinge a salire sulla sua autovettura di servizio ferma davanti al portone dello stabile in cui vive, in via Giuseppe Pipitone Federico a Palermo, viene investito dall’esplosione causata da una 126 radiocomandata imbottita di tritolo. È la prima autobomba che, ponendo fine vigliaccamente alla vita del Giudice, segna l’ulteriore e drammatico inasprirsi della strategia di Cosa Nostra. Assieme al Magistrato perdono la vita il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi e i due carabinieri della scorta, Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi (fonte: Fondazione Chinnici)
Nell’omelia tenuta nella chiesa di San Domenico, il cardinale Salvatore Pappalardo, sottolinea come: “...Si è parlato, in questi ultimi tempi, di volere erigere un monumento alle vittime della mafia: è un gesto che, dove e come lo si voglia fare, può avere il suo significato, ma certo il monumento più valido è il nome onorato che questi caduti lasciano ai loro figli e alla nazione tutta: è l’esempio del dovere compiuto fino al sacrificio“. (fonte: Consiglio Superiore della Magistratura)
Dopo decenni, Caterina Chinnici, la figlia – a sua volta giudice impegnata nella lotta alla mafia – sceglie di raccontare la loro vita «di prima» e la loro vita «dopo»: come lei, i suoi fratelli e la madre abbiano imparato nuovamente a vivere e siano riusciti a perdonare. L’unico modo per sentirsi degni di un padre e di un marito molto amato. Un libro da leggere per ripercorre la vita del magistrato siciliano dal titolo E’ così lieve il tuo bacio sulla fronte (Mondadori).
Dal libro è stata tratta anche la sceneggiatura del film per la televisione trasmesso nel 2018 per la regia di Michele Soavi con Sergio Castellitto, Cristiana Dell’Anna e Manuela Ventura.
Per il suo impegno nella lotta alla mafia e alla criminalità organizzata lo Stato ha conferito a Rocco Chinnici la Medaglia d’Oro al Valor Civile con la seguente motivazione:
«Magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, consapevole dei rischi cui andava incontro quale Capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, dedicava ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la sfida sempre più minacciosa lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Barbaramente trucidato In un proditorio agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificava la sua vita al servizio della giustizia, dello Stato e delle istituzioni»
— Palermo, 29 luglio 1983
Laura Malandrino