31 dicembre 2023. La tradizione vinicola in Perù
A poche ore dal Capodanno 2023 e, di conseguenza, dall’appuntamento con le classiche “bollicine”, come in gergo vengono definiti i vini spumanti e il diffusissimo prosecco, vogliamo raccontare agli amici di “Giorni di Storia” un pezzo di storia nazionale, legato alle vicende dell’emigrazione Italiana nel mondo, in particolare a quella che interessò i principali Paesi dell’America Latina, fra i quali il bellissimo Perù. Ebbene, uno degli aspetti poco conosciuti riguardo alla presenza della Comunità italiana in Perù è quello relativo all’industria vinicola, spettando, infatti, ad essa il merito di averla iniziata e portata avanti, con ingegno e pratica sapienza, attraverso un incessante lavoro, che nel corso di qualche secolo ha portato la medesima industria al grado di sviluppo nella quale si trova oggi. Orbene, sin dai primordi dell’emigrazione italiana in Perù, tema sul quale siamo tornati più volte su questo ospitale portale storico, il richiestissimo vino italiano, pur tuttavia sempre in concorrenza con quello francese, come accadeva in varie parti del mondo, veniva importato direttamente dalla Penisola, trasportato nelle resistentissime botti di rovere, imbarcate sia a Genova, allora importantissimo porto del Regno di Sardegna che a Napoli, Capitale del Regno delle Due Sicilie. Fu solo dopo l’unificazione italiana, nel marzo del 1871, via via che la presenza dei nostri emigrati si andava diffondendo in tutta l’America Latina che molti agricoltori giunti anche in Perù pensarono bene di portare con sé anche i principali vitigni nazionali, per poi trapiantarli in alcune aree della grande Nazione Sudamericana, ove migliori erano le condizioni, sia del terreno che meteo-climatiche.
I vitigni italiani in Perù
La coltivazione dei vitigni e la relativa produzione vinicola furono inizialmente impianti dagli italiani nella Valle di Chincha, lungo la costa a Sud di Lima, per poi essere propagate anche nelle Regioni circostanti, quali Moquegua, Vitor, Mages e la stessa Lima, nelle cui campagne fertilissime avrebbero coltivato viti provenienti dall’Italia i celebri “Fratelli Orezzoli”, a capo di una delle più importanti Case Vinicole Italo-Peruviane. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, gran parte dei viticultori Italo-Peruviani iniziò a praticare incroci di sementi, utilizzando sia prodotti italiani che francesi, peraltro raggiungendo ottimi risultati in termini qualitativi. Non solo, ma furono gli stessi viticultori italiani a dar vita alla produzione locale di acquavite, la più famosa delle quali fu certamente quella di Ica. L’acquavite di Ica si otteneva con uva comune, ma anche con le celebri uve “Moscatello” e “Italia”, uve pregiatissime con le quali si otteneva anche un eccellente Cognac, avendo cura di invecchiare il prodotto per alcuni anni in botti di legno altrettanto pregiato. Ma Ica, così come Pisco, fu ed è tuttora famosa anche per il generoso vino bianco, il quale, se conservato per qualche tempo arriva persino a prendere la sostanza e il gusto del più celebre “Jerez”, mentre quello rosso, anch’esso opportunamente invecchiato, acquista, invece, un sapore molto simile al Borgogna. Agli inizi del Novecento, tra i più affermati produttori vinicoli di Chincha vi era Francesco Nagaro, il quale si era trasferito in Perù nella seconda metà dell’Ottocento, seguendo la grande scia dell’emigrazione italiana. L’industriale Nagaro aveva dato, infatti, vita ad un grande Stabilimento vinicolo, uno dei più noti del Perù, dotato di macchinari moderni, ma soprattutto capace di produrre, grazie ai propri vigneti, un vino davvero eccellente, diffuso in tutto il Paese attraverso i centri commerciali. Ma certamente il Nagaro non fu il solo italiano a cimentarsi nel settore.
È, infatti, doveroso ricordare anche altri pionieri della coltivazione, quali Antonio Solari, Giuseppe Allegranza, Giovanni Tori, Francesco Arena, Giovanni Risi, Pietro Navaro, Aurelio Peschiera, la ditta “Grimaldi & Canepa”, e così via, tutti operanti nella stessa Chincha, mentre ad Ica, degni di nota erano, sempre agli inizi del Novecento, gli Stabilimenti di Ocupaje, fondati dal Comm. Francesco Mazzei, seguito a ruota dal connazionale, Carlo Belli. Sempre agli inizi del Novecento, più o meno attorno al 1905, la produzione di vino da parte dei produttori di origini italiane ammontava a ben 25.000,000 litri, a fronte dei 30.000,000 della produzione media annua di tutta la Nazione Peruviana: un vero e proprio record. Rimanevano esclusi, pur tuttavia, gli spumanti e i vini pregiatissimi, per i quali si ricorse ancora per molti anni all’importazione direttamente dall’Italia.
L’importazione degli spumanti e dei vini italiani
In una vecchia copia del <<Bollettino della Società Generale dei Viticoltori d’Italia>>, edito il 10 marzo del lontanissimo 1887, apprendiamo, grazie ad una relazione a firma del Vice Console italiano al Callao, che ancora in quell’anno, nonostante la forte presenza di viticultori italiani in Perù, con i loro ampi e prosperosi vitigni, il grande Paese Latino-Americano importava non pochi quantitativi di vino italiano, mettendo in piedi una fiera concorrenza all’importazione dalla Francia. I c.d. “vini di lusso” venivano allora importati in casse di 12 bottiglie ciascuna, mentre quelli da pasto in botti da 220 litri. Fra i vini più pregiati si segnalavano quelli piemontesi neri, quali Barolo, Barbera, Grignolino, ma anche i moscati bianchi di Acqui ed Asti. Non meno interessante era, poi, l’importazione di pregiati vini meridionali, quali il Salerno, il Marsala, il Lacrima Christi, il Capri bianco e rosso della “Ditta Scala” di Napoli. Sempre nel 1887, ogni cassa di vini bianchi veniva venduta in Perù in media a 16 soles (circa 80 lire), mentre quelle di vini neri scendevano in media da 45 a 60 lire a seconda della qualità. I dazi di importazione erano allora alquanto esosi, tanto che ogni cassa di vino bianco corrispondeva all’Erario dalle 20 alle 25 lire, mentre per il vino nero il dazio spaziava dalle 10 alle 15 lire. Molto ricercati in Perù erano, poi, i vari tipi di Vermouth, importanti direttamente dall’Italia dalle società produttrici Martini, Gancia, Cora e Cinzano. Per ogni cassa, gli importatori pagavano in media 52 lire, per poi arrivare a 70 o 75 lire per quelli prodotti dalla Azienda Cora, a seconda se con china o senza china.
Tornando a parlare dei celebri spumanti italiani, tanto amati in tutto il Perù, osserviamo che una maggiore diffusione di tale bevanda alcolica nella Nazione Sudamericana si registrò a partire dal 1910, epoca nella quale, grazie alla nuova tariffa doganale varata nel Paese andino, il Moscato d’Asti e gli altri vini spumanti italiani non sarebbero stati più gravati da esosi balzelli, potendo così ottenere l’agevolazione di pagare la metà del dazio fissato, invece, per lo Champagne francese, al quale, in passato, erano stati parificati. La facilitazione doganale aumentò a dismisura l’importazione dall’Italia di grosse partite di spumante, peraltro già imbottigliato e sistemato in apposite casse di legno spedite da Genova. Lo spumante italiano, che obiettivamente non aveva nulla a che invidiare allo Champagne francese fu, dunque, finalmente alla portata di tutti, compresi gli stessi italiani appartenenti al ceto medio-basso, i quali sin lì non si erano potuti permettere il lusso di acquistare nemmeno una bottiglia, volendo festeggiare, come da tradizione, la nascita del nuovo anno. Ma, come sempre successe nei vari Paesi ove erano emigrati, i bravi viticultori italiani riuscirono, anche se con non poche fatiche, a produrre degli ottimi spumanti con i vitigni locali, anche se le celebri marche italiane, quali la Cinzano e la Asti avrebbero mantenuto il passo ancora per molti decenni, superando anche il protezionismo doganale che avrebbe interessato il Perù all’indomani della fine della “Grande Guerra”. Ma questa è un’altra storia…
Col. (a) Gerardo Severino
Storico Militare