Dal Gennargentu alle Ande. Brevi spunti sull’emigrazione sarda in Perù
Non faccia sorridere al lettore il titolo di questo saggio, il quale non vuole apparire di certo come uno “scimmiottamento” del nome di uno dei capitoli più appassionanti del libro “Cuore”, il celebre romando del grande Edmondo De Amicis. Per chi non lo ricordasse o lo sapesse, “Dagli Appennini alle Ande” è la struggente storia di Marco, un tredicenne genovese che sul finire dell’Ottocento s’avventura da solo verso l’Argentina, per andare a cercare la mamma, emigrata anni prima e della quale non aveva avuto più notizie. In verità, esso incarna la storia della stessa emigrazione italiana in Sud America: una storia certamente non facile, fatta di angherie, di soprusi, di sacrifici, di sangue e morte, e talvolta anche di riscatto sociale. Si, cari lettori, quel “riscatto” che avrebbe spinto migliaia e migliaia di italiani a lasciare la propria Patria. Ciò – come abbiano spesso ricordato anche su questo portale – si verificò principalmente dopo il 1870, allorquando le condizioni di vita dell’Italia post unitaria erano ancora misere, soprattutto in quelle aree periferiche, da Nord a Sud, non ancora raggiunte dal lento incedere del mondo industriale. Ebbene, furono in tanti, anche dalla Sardegna a raggiungere il Sud America, e non solo per andare a lavorare nelle pampas argentine, nelle estancias uruguayane, ovvero nelle estese fazendas e piantagioni di caffè brasiliane, ma anche per soffrire i non pochi patimenti nelle numerose miniere del Perù, ove molto spesso si perdeva anche la vita. Molti sardi avrebbero fatto fortuna, raggiungendo persino le vette dell’amministrazione pubblica, del commercio e delle arti, mentre altri – la maggioranza – avrebbero semplicemente vissuto modestissime vite, peraltro senza nemmeno la gioia di poter essere ricordati, sia in Perù che nella stessa Sardegna. A loro dedichiamo questo modestissimo contributo di conoscenza, volendo ribadire ancora una volta il ruolo che la nostra emigrazione ha avuto per la crescita economica, culturale e sociale di uno straordinario Paese, culla ci civiltà millenarie.
Piemontesi, sardo-piemontesi e sardi in Perù (1841 – 1908)
Così come era accaduto secoli prima lungo il Rio de la Plata, ove tra i marinai di Spagna che armavano le navi dei Conquistadores vi erano anche alcuni cagliaritani, tanto da attribuire a loro il toponimo della stessa Buenos Aires, così denominata in onore della Madonna di Bonaria[1], alcuni abili marinari provenienti dall’isola di Sardegna raggiunsero anche il Perù, oltre alle varie aree geografiche dell’America del Sud, le stesse che avrebbero poi dato vita ai noti Vicereami. In realtà, per una presenza più consistente dei sardi (di Sardegna) in Perù bisognerà attendere i primi anni ’40 dell’Ottocento, allorquando l’allora Regno di Sardegna, con Capitale Torino, decise di intraprendere rapporti diplomatici con la giovane Repubblica Sudamericana, sorta nel 1821. A motivare la decisione era stato, almeno in quella circostanza, il crescente aumento degli emigrati liguri (soprattutto marinai e commercianti), insediatisi lungo le coste del Paese proprio a seguito dell’ottenuta indipendenza dalla Spagna[2]. Si decise così (era il 1839) di istituire un Regio Consolato a Lima, il quale, tuttavia verrà ricoperto solo nel 1842, con l’arrivo in Perù del Console Luigi Baratta[3]. È verosimile, quindi, ritenere che ciò abbia favorito non poco l’emigrazione di altre migliaia di persone dai c.d. “Stati Sardi”, come fu poi chiamato il Regno di Sardegna, soprattutto dopo la c.d. “fusione perfetta”, decretata da Re Carlo Alberto nel 1847[4]. E fu proprio questo cambio di denominazione a “innescare” le prime confusioni, sia nella stampa dell’epoca che tra gli storici dell’emigrazione, in quanto col termine “cittadini sardi” o comunque “sardi” in generale, s’identificarono tutti i sudditi di S.M. il Re di Sardegna, quindi anche i liguri, piemontesi e valdostani, oltre ovviamente ai nativi dell’isola di Sardegna. Anche per tale ragione, l’unica possibilità per chi abbia la volontà di conoscere la storia della presenza dei sardi in Perù è quella di seguire l’origine dei cognomi, anche se, a onore del vero, a parte quelli classici, e quindi tipici dell’isola, non pochi cognomi sardi erano e sono anche loro di origini liguri[5]. In ogni caso, al di là di ciò, possiamo aggiungere che una vera e propria storia della presenza dei sardi in Perù ci spinge alla seconda metà dell’Ottocento, in particolare agli anni seguenti al 1874, epoca nella quale iniziò ad operare il c.d. “Trattato di Amicizia, Commercio e Navigazione fra l’Italia e Perù”, firmato a Lima il 23 dicembre del 1874. Con tale Trattato (ratificato in Italia con la Legge 29 dicembre 1878, n. 4673) fu, in particolare, sancita la piena libertà di commercio e navigazione tra i due Paesi, esclusione fatta per l’esercizio del cabotaggio. Si assicurava, poi, ai cittadini di entrambi i Paesi nel territorio dell’altro il libero esercizio delle industrie e dei commerci leciti, il godimento dei diritti civili e la facoltà di adire i Tribunali, alle stesse condizioni riservate ai nazionali. Ebbene, fu proprio in quel contesto che anche dall’isola di Sardegna giunsero in Perù i primi minatori, spinti sia dalla pubblicità fatta dai propri connazionali che dalla sempre più crescente richiesta di mano d’opera specializzata da impiegare presso le numerose miniere del quale il Paese andino era ricchissimo. Nei deserti del Sud esistevano importanti depositi di minerali, giacimenti di salnitro, accompagnati spesso da iodio, mentre lungo quasi tutto il littorale, cloruro di sodio, nitrato di potassa, allume, amianto, carbonati di soda, calce e magnesia, solfati di calce e di soda, cristallizzati ed amorfi; al Nord, petrolio ed asfalto; qualche scarso strato di carbone e lignite nel centro; miniere di rame ed anche di oro, in più punti. Il Perù fu sempre grato agli italiani, per le tali professionalità, tanto da consentire a molti di loro di ottenere anche non poche concessioni minerarie. E gli italiani furono, forse, anche quelli fra i più penalizzati dagli effetti della “Guerra del Pacifico”, nota anche come “Guerra del Salnitro” [6].
Tale durissimo conflitto fu combattuto tra il Perù e la Bolivia contro il Cile, negli anni 1879-83, causato dallo sfruttamento delle miniere di Atacama, che lo stesso Perù fu poi costretto successivamente a cedere al Cile vittorioso. Moltissime famiglie italiane rimasero sul lastrico, mentre altre, cercando comunque di sopravvivere, rimasero a vivere sotto il nuovo regime, pur di non lasciare le proprie abitazioni. In ogni caso, l’emigrazione dalla Sardegna verso il Perù riprese lentamente solo sul finire dell’Ottocento[7], ma mai su grosse stime, essendo, già allora, molto più conveniente affrontare le rotte verso l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay, il Venezuela, ma soprattutto verso gli Stati Uniti d’America. Il fenomeno si ridusse drasticamente tanto è vero che attorno al 1905, i sardi giunti in Perù risultano essere appena 7, cinque dei quali stabiliti a Lima e 2 al Callao[8]. Le timide emigrazioni dei sardi verso il Perù scemarono del tutto verso gli inizi del Novecento, soprattutto a causa della crisi che subì il settore minerario. Nel Dipartimento di Ica, tanto per citare un esempio calzante, si trovavano in esercizio parecchie miniere di rame, di proprietà di connazionali; ma, in seguito alla crisi avvenuta per via dei prezzi di questo prezioso minerale, dovettero chiudere. Quando i prezzi tornarono a risalire, una nuova Ditta ottenne le concessioni più importanti del Dipartimento, abbandonate nel frattempo dagli antichi proprietari, ma conservandole in gran parte inoperose, paralizzando così ricche sorgenti di prosperità e di lavoro, con danno degli interessi commerciali e industriali per l’intera Colonia italiana.
Da ciò ne scaturì l’improvvida legge sulle miniere del Perù. La legislazione del Cile, del Messico e dei principali Stati minerari del Nord-America esigevano, per la conservazione della proprietà, un minimum di lavoro costante sulle concessioni ottenute dallo Stato, obbligando: a) l’abbandono dei filoni scoperti, qualora non avessero risposto all’aspettativa degli scopritori; b) che i capitali fossero diretti sui depositi realmente ricchi; c) che questi si riordinassero, mercé un proficuo lavoro, a vantaggio della zona in cui si trovavano, dando così luogo alla formazione di nuovi centri di popolazione, di industrie e di commerci. Il Governo peruviano si accontentava, invece, di percepire una tenue contribuzione annua sulla concessione dei filoni scoperti, ragion per cui venne meno fra gli investitori, sia locali che stranieri, onesti l’idea di aprire nuove miniere, lasciando, invece, ai disonesti l’organizzazione di vere e proprie truffe ai danni dello Stato. Vari furono i campi d’impiego dei sardi in Perù, come è stato già ricordato in un precedente saggio dedicato alla famiglia Martinetti, che da Cagliari si trasferì ad Arequipa[9]. Ed è ancora grazie alla pubblicazione prima ricordata, edita nel 1906, che possiamo citare alcuni dei sardi che a quella data si erano meritati una citazione ufficiale, evidentemente in quanto ritenuti personaggi in vista, nell’ambito dell’intera Comunità italiana vivente in Perù. Vi è, quindi, un Giovanni Cossu, abile calzolaio a Lima; un Cristoforo Massa, commerciante di tessuti e generi alimentari diversi a Chinca, ma anche proprietario di una rinomata vigna che produceva quasi 2000 ettolitri di vino pregiato; un Giuseppe Monti, commerciante di paste e conserve alimentari a Ica; un Francesco Serroni, titolare di uno spaccio di commestibili ad Arequipa (la stessa città ove operavano la poderosa Azienda di Giacomo Adolfo Martinetti e il centro di commercio di tabacchi di suo fratello Alfredo) e Giulio Zucca, titolare di un avviato spaccio di commestibili e liquori nella stessa Capitale, tanto per citare quelli con il cognome certo. Al di là di quanto è stato già ricordato nel saggio sui Martinetti, ove vedemmo Don Giacomo Adolfo membro del Consiglio Provinciale di Arequipa, aggiungiamo che anche ad altri suoi familiari (quindi sempre emigrati sardi) non furono precluse altre cariche istituzionali. È il caso, ad esempio, di Don Julio César Martinetti, il quale, attorno al 1920, occupò la poltrona di Sotto Prefetto nella località di La Union (Cotahuasi), sempre nell’ambito del Dipartimento di Arequipa[10]. Molto rari furono gli arrivi dalla Sardegna nel periodo precedente e successivo alla “Grande Guerra”, mentre una timida ripresa si ebbe nel secondo dopoguerra, in particolar modo nel periodo nel quale il Perù ebbe bisogno nuovamente di esperti minatori e tecnici di miniera.
Che il legame principale che avrebbe unito nel tempo la Sardegna al Perù fosse stato il settore minerario lo avevamo sin qui compreso, ma non avremmo certo immaginato che dietro tale “offerta di lavoro” si potessero talvolta celare dei veri e propri drammi, come cercheremo di documentare, ricordando quanto accadde nel grande Paese andino dall’agosto 1907 al giugno 1908. Fu proprio durante la crisi del settore minerario cui avevamo fatto cenno prima che alla Regia Legazione italiana di Lima, in quel frangente storico retta dal Console Generale, Conte Francesco Mazza, toccò occuparsi della triste situazione nella quale si erano trovati circa 80 italiani, gran parte dei quali minatori provenienti dalla Sardegna, i quali, mal consigliati dal Console peruviano a Panama, ove gli stessi erano giunti nel frattempo dall’Italia per lavorare alla realizzazione del celebre Canale, avevano intrapreso il viaggio verso il Perù, dietro la promessa di una <<utile e durevole occupazione>>[11].
In quella circostanza, lo stesso Incaricato di affari, Mazza, preoccupato della critica situazione di quegli infelici, con l’autorizzazione del Commissariato per l’Emigrazione (che operava nell’ambito del Dicastero degli Esteri, a Roma) e valendosi dell’amicizia sua personale coi gerenti della “Peruvian Corporation”, della “Cerro de Pasco Mining C.” e della “Peruvian Smelting & Refining C.”, ebbe modo di trasferire gran parte di loro e a spese dello stesso Commissariato presso le miniere del Cerro de Pasco, di Rio Blanco e Morococha. Coloro che non avevano, invece, dimestichezza con le miniere non ebbero altra scelta se non quella di farsi assumere dalle Società che in quel frangente si erano aggiudicati i lavori delle ferrovie in costruzione da Chimboto a Recuay e da Yonàn a Pacasmayo. In quella circostanza, pur riuscendo a porre rimedio e ad assicurare comunque a quegli 80 padri di famiglia un tetto sicuro, il coraggioso Incaricato d’affari italiano a Lima pose fine ad una vera e propria “tratta di manodopera” a basso costo verso il Perù, nella quale erano caduti centinaia e centinaia di lavoratori. Molti di loro erano per l’appunto sardi, e avevano lasciato le miniere della propria terra, dal Gennargentu al Sulcis, ove venivano sfruttati a basso salario, nella speranza di un avvenire migliore, magari nella speranza di essere assunti presso le miniere gestite dai propri connazionali. Invece non era stato così, tanto che dopo aver subito le angherie in Patria (chi non ricorda i “Fatti di Buggerru”?[12]), molti di loro avrebbero finito i propri giorni, sfruttati nelle miniere peruviane, sulle quali avevano messo le mani società provenienti da mezzo mondo, soprattutto dal Nord America. Il Governo del Perù, peraltro in buona fede, aveva favorito l’ingresso nel Paese di tale mano d’opera, speranzoso di una ripresa del settore, salvo poi verificare sia la competenza di operai e tecnici, sia le reali condizioni di lavoro alle quali tante povere vite sarebbero state sottoposte. Fu lo stesso Ministro plenipotenziario Mazza a richiamare l’attenzione del Ministero degli Esteri sui rischi derivanti dall’anormale: <<…corrente immigratoria venuta al Perù senza che il terreno fosse qui previamente preparato per riceverla; e giustamente fece osservare che, se il Rappresentante del Perù aveva proceduto con buona intenzione, avrebbe fatto meglio ad assumere prima da fonte ufficiale dati precisi e sicuri sul numero e sulla qualità degli emigranti pei quali con certezza si poteva qui trovare occupazione>>[13]. In effetti, il Ministero corse ai ripari, tanto che la corrente migratoria fu arrestata. Ebbene, come scrisse lo stesso Conte Mazza: <<Le condizioni economiche del Paese, eccessivamente depresso, e l’assoluta sua impreparazione a ricevere immigrati; la concorrenza dell’immigrazione asiatica che continua sempre su larga scala con vapori giapponesi pieni d’immigrati, i quali cominciano già a sostituirsi persino ai pulpieri[14] genovesi, rendono impossibile per ora al Perù un’immigrazione europea, ed è assolutamente da sconsigliare agli italiani di recarsi in questo Paese>>[15].
Epilogo
In verità l’emigrazione verso il Perù non s’interruppe affatto, nonostante lo scoppio della “Grande Guerra” e per quanto limitata a pochi tecnici e operai delle miniere, come ci ricorda la storia molto bella del minatore Francesco Pulisci, originario di Simaxis, classe 1879, il quale nel 1916 si spostò in Perù da Panama, ove era giunto nel corso del 1910, assunto dalla “Compagnia del Canale di Panama”. Da minatore presso alcune miniere d’argento, il Pulisci divenne poi un abilissimo agricoltore, tanto da impiantare, nei pressi di Puente Piedra, poco a nord di Lima, un rigoglioso vitigno molto simile al suo adorato cannonau, come egli stesso raccontò in un toccante articolo pubblicato sul “Messaggero Sardo”[16]. E nello stesso periodico nel quale egli concesse l’intervista al giornale sardo è ricordata anche la figura di Bruno Ibba, un Gesuita originario di Siliqua, giunto in Perù nel 1975 per poi operare presso il collegio missionario San Josè di Arequipa: una storia molto bella anche questa, la quale meriterebbe di essere affrontata, volendo ricordare il ruolo avuto nel continente Sudamericano dai missionari sardi[17]. Concludiamo il saggio ricordando che, allo stato attuale, il retaggio di una così grande e gloriosa presenza in Terra peruviana è tutelato, oltre ovviamente che dalla rete diplomatica italiana presente nel Paese andino, anche dalla benemerita “Asociación Sarda del Perù”, operante a Miraflores (Lima) sotto la presidenza di Pierpaolo Tremendo, dedicata alla nobile figura di Ulisse Usai (Guspini, 1926 – Cagliari, 1993), sindacalista e storico dirigente della FILEF (“Federazione Italiana Lavoratori Emigranti e Famiglie”), il quale aveva consacrato tutta la sua vita sia all’attività politica che ai problemi degli emigrati sardi nel mondo.
Col. (a) GdF Gerardo Severino
Storico Militare
[1] Cfr. Gerardo Severino, Buenos Aires, in << Tecnologie e Trasporti Mare>>, maggio 2002.
[2] Cfr. Gerardo Severino, Storia dei rapporti diplomatici tra Italia e Perù (1839 – 2022), numero speciale in www.reportdifesa.it 16 ottobre 2022.
[3] Cfr. Gerardo Severino, Giacomo Baratta. Primo Console Generale del Perù in Italia (1796 – 1883), in www.tuttostoria.net, 10 novembre 2022.
[4] L’atto Sovrano, il quale era stato richiesto dai ceti dirigenti di Cagliari e Sassari per ottenere parità di diritti, avrebbe comportato la rinuncia delle ultime vestigia statuali acquisite nel periodo spagnolo (carica Vicereale, Parlamento degli Stamenti, Suprema Corte della Reale Udienza), e l’unione amministrativa e politica con gli Stati di Terraferma.
[5] Si consiglia Vanni Boni, L’isola nel Perù: integrazione e vita di sardi tra il Pacifico e le Ande, Cagliari, C.U.E.C., 2000.
[6] Sull’argomento Vgs. Gerardo Severino – Roberto Bartolini, La Guerra del Pacifico (1879 – 1883), Pavia, Marvia Edizioni, 2003.
[7] Nel 1881 risulta, infatti, nulla. Vgs. <<L’Italia al Perù. Rassegna della vita e dell’opera italiana nel Perù>>, Lima, Litografia e Tipografia Carlo Fabri, 1905, p. 6.
[8] Cfr. “Distinzione per luoghi di origine degli italiani nati nel Regno residenti a Lima e al Callao”, in <<L’Italia al Perù. Rassegna della vita e dell’opera italiana nel Perù>>, op. cit., p. 19.
[9] Cfr. Gerardo Severino, Da Cagliari ad Arequipa. Storia della famiglia Martinetti, vanto della Colonia italiana in Perù”, in www.giornidistoria.net, 26 ottobre 2022.
[10] Cfr. <<Almanaque de El Comercio>>, Lima, 1920, p. 396.
[11] Cfr. L’immigrazione italiana nel Perù. Da un rapporto del conte Francesco Mazza, R. Ministro in Lima (marzo 1909), in Ministero degli Affari Esteri, Commissariato dell’Emigrazione, <<Emigrazione e Colonie. Raccolta di Rapporti dei RR. Agenti Diplomatici e Consolari>>, vol. III, America, Roma, Tipografia dell’Unione Editrice, 1909, p. 399.
[12] A Buggerru (Cagliari) il 4 settembre del 1904, una folla di minatori in sciopero fu caricata dalle Forze dell’Ordine, le quali lasciarono sul terreno tre morti e una ventina di feriti. L’evento di cronaca scosse tutto il Paese, provocando le giuste proteste da parte delle organizzazioni sindacali e del Partito Socialista.
[13] Cfr. L’immigrazione italiana nel Perù. Da un rapporto del conte Francesco Mazza, R. Ministro in Lima (marzo 1909), op. cit.
[14] Le pulperías erano negozi situati per lo più negli angoli delle strade, nei quali si vendeva di tutto: legumi, patate, pane, olii, tabacchi, terraglie, salati, medicinali, aromi e persino figurine.
[15] Ibidem.
[16] Cfr. Corrispondenza dal titolo “Partito da Simaxis settantacinque anni fa”, in <<Il Corriere Sardo>>, 21 dicembre 1981, p. 21.
[17] Cfr. Corrispondenza dal titolo “Da Siliqua alle Ande”, in <<Il Corriere Sardo>>, 21 dicembre 1981, p. 21.