9 gennaio 2017: muore Zygmunt Bauman
Fra i più lucidi studiosi dei grandi fenomeni del nostro tempo, il sociologo polacco, al convegno “Parabole mediatiche” promosso dalla Cei nel novembre del 2002 ha riflettuto sull’informazione globale che spesso illude gli spettatori di conoscere tutto, ma non concede loro la possibilità e la speranza di poter cambiare qualcosa. Un senso di impotenza che a lungo andare potrebbe trasformare la gente in meri spettatori indifferenti alle sofferenze che ogni giorno i mass media trasmettono. Tuttavia, esiste un’affinità fra “fare il male” e “non opporsi al male”. Ciò che collega questi due aspetti, secondo il vocabolario di Stanley Cohen, è la loro disperata negazione della colpa. La negazione rende il perpetrare il male e l’astenersi al reagire ad esso psicologicamente e sociologicamente possibili. La negazione è per entrambi uno strumento principale e una condizione indispensabile. A questo punto, ha detto Bauman «la negazione è la risposta a interrogativi angoscianti: che cosa ne facciamo della nostra conoscenza del dolore degli altri e che cosa opera in noi questa conoscenza? Gli interrogativi che sorgono quando persone, organizzazioni, governi o intere società ricevono informazioni troppo inquietanti, minacciose o anomale per poter essere assorbite del tutto o apertamente riconosciute. L’informazione viene, quindi, in qualche modo repressa, rinnegata, accantonata o reinterpretata». Esistono molte forme di negazione della colpa, o di pretesa di innocenza, ma gli argomenti a cui si ricorre sono straordinariamente simili. La negazione ha una struttura a due strati, mancanza di conoscenza e mancanza dell’opportunità di agire sulla conoscenza, che possono facilmente adattarsi a tutti gli argomenti più utilizzati. “Privati dei loro abbellimenti – ha aggiunto il sociologo – tutti gli argomenti rivelano l’uno o l’altro i seguenti modelli: non sapevo oppure non ho potuto fare nulla”. È questa, dunque, la difficoltà maggiore con la quale oggi si confronta ogni persona-spettatore davanti allo sforzo di estendere la coscienza morale sulla dimensione globale dei problemi e dei compiti da tutti condivisi. È questo uno stato che Bauman ha definito di “attesa” o meglio “by-standers”. Il superamento può avvenire solo se dalla fase di “by-standers” si passa alla condizione di “attori” intesa come persone pensanti e non testimoni silenti e passivi che vedono e ascoltano immobili magari davanti a uno schermo televisivo. Davanti a questo quadro, l’informazione offerta non aiuta a salire al livello di attori. «Ci vengono proposte – ha avuto modo di sottolineare Bauman – immagini scioccanti di povertà umana, ma nessuno ci aiuta a comprendere le cause profonde e i complessi meccanismi che fanno ogni volta riemergere la miseria malgrado la nostra solidarietà. Dubitiamo delle capacità di cambiare le cose in meglio visto che ignoriamo il nesso tra ciò che facciamo, o non facciamo, e quanto ci viene mostrato in Tv». Il superamento di questo empasse, secondo la tesi del professore dell’Università di Leeds, è che tutti dipendiamo gli uni dagli altri, dunque siamo responsabili del prossimo. Quello che facciamo o non facciamo fa la differenza per la vita e le opportunità altrui. Dunque, il passo decisivo oggi è quello di assumersi le responsabilità di ciò che ci compete, e agire di conseguenza