IMI. La storia degli internati militari italiani
Una storia poco conosciuta, di resistenza e di amore per l’Italia quella degli IMI. Una sigla che significa Internati militari italiani, ma che vuol dire molto di più. 8 settembre 1943: l’Italia è divisa in due. Al nord la Repubblica Sociale Italiana alleata con i nazisti. A sud gli Alleati hanno già conquistato buona parte della penisola. Gli IMI si rifiutarono di collaborare con i nazi-fascisti e per questo vennero avviati nei lager del Terzo Reich. Furono circa 650.000 gli IMI che, compiendo questa scelta, entrarono a pieno titolo a far parte della Resistenza italiana. La loro fu una scelta: quella di dire “No” ad allearsi con Adolf Hitler e Benito Mussolini, a costo della loro stessa vita. Non fu una scelta facile. Tra gli ufficiali vi furono anche motivazioni di carattere più spiccatamente ideale, come la fedeltà al giuramento al re, considerato responsabile del dramma in cui si era caduti. Comunque, a prescindere dalle ragioni del “NO!”, fu una scelta non facile, poiché i soldati italiani facevano parte di una generazione educata a non prendere decisioni autonome. “Credere, obbedire e combattere” era il motto di quei giovani inquadrati, fin dall’infanzia, nelle formazioni fasciste dei balilla e dei giovani fascisti e lo stesso concetto di Patria, all’apice di ogni loro aspirazione ideale, dovette essere rielaborato. Il loro “NO!” fu il primo passo verso la riconquistata libertà di pensiero.
Tra i testimoni ancora vivi di questo dramma c’è Michele Montagano. Lui come tanti altri giovani dopo l’8 settembre 1943 si trovavano al di la dei confini italiani. Chi nella Francia meridionale, in Corsica, in Croazia, in Dalmazia, in Albania, in Grecia, nelle Isole Jonie e in quelle dell’Egeo furono abbandonate a se stesse. Il destino di questi soldati apparve subito assai peggiore di quello delle truppe che si erano in precedenza arrese agli anglo-americani nell’Africa orientale e nell’Africa settentrionale. I tedeschi, infatti, le trattarono con alterigia e disprezzo, ma soprattutto con il rigore che essi riservavano a coloro che avevano disertato. Basta pensare a ciò che accadde alla Divisione “Acqui” a Cefalonia e Corfù.
Il calvario iniziò infatti quando centinaia di migliaia di soldati e ufficiali nel Centro-Nord della penisola, nella Francia meridionale, nell’area Balcanica, in Albania e in Grecia vennero ammassati nelle caserme o in recinti predisposti nelle stazioni. Dopo estenuanti attese furono accalcati sui treni in carri bestiame, caricati sui vagoni a decine come animali da macello, schiacciati l’uno sull’altro, senza avere la possibilità di sdraiarsi e dormire, torturati dalla fame, ma soprattutto dalla sete e nell’impossibilità di espletare dignitosamente i propri bisogni corporali. Tra questi Luciano Salce, Tonino Guerra e lo stesso Giovannino Guareschi che racconta in un libro tutta la sua prigionia.
Durante il viaggio, che a volte durava anche quindici giorni, la loro condizione divenne insostenibile. Se qualcuno, nei rari momenti in cui si aprivano i portelli, si azzardava minimamente ad allontanarsi dai vagoni, i tedeschi non avevano alcuna difficoltà a sparare. Ci fu chi impazzì, altri subirono indelebili danni fisici: tutti conserveranno nel tempo il ricordo di quel viaggio come il periodo forse più tragico della prigionia.
“Lo spettacolo era sempre lo stesso – scrive Giampiero Carocci, ufficiale internato, vagoni – vagoni e vagoni carichi di carne umana, di facce terrorizzate, di mani imploranti”. Ancor più drammatica la situazione in cui si trovarono quanti furono trasferiti dai tedeschi compiendo la prima parte del tragitto via mare. Dalle isole dell’Egeo partirono infatti navi stipate di soldati italiani dirette verso la terraferma e gran parte di queste furono bombardate dagli Alleati e affondate, inoltre i prigionieri venivano mitragliati dai tedeschi per impedir loro di uscire dalle stive, dove erano stati rinchiusi.
Un mondo, quello dell’internamento sul quale è bene fare alcune premesse. I tedeschi non considerarono i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 quali prigionieri di guerra, ma, con disposizione unilaterale, voluta da Hitler e accettata da Mussolini, a capo del governo della Repubblica Sociale Italiana appena costituita, li classificarono “internati militari”, categoria ignorata dalla Convenzione di Ginevra. Vennero così privati quasi del tutto dell’aiuto della Croce Rossa Internazionale.
Gli IMI furono condotti in diverse zone del Reich: in Germania, Austria, Polonia e Cecoslovacchia. I lager erano contrassegnati da un numero romano che indicava la circoscrizione militare e da una lettera dell’alfabeto che ne stabiliva il numero progressivo all’interno di ciascun distretto. I militari di truppa e i sottufficiali vennero rinchiusi negli Stammlager (detti Stalag), per essere adibiti al lavoro coatto nelle miniere, nelle fabbriche e nelle campagne sopperendo all’esigenza di mano d’opera dell’economia tedesca. Chi si rifiutava di lavorare era destinato ai campi di punizione (Straflager), spesso dipendenti dai campi di sterminio dove le possibilità di sopravvivenza erano minime. I circa 30.000 ufficiali dell’esercito regio vennero collocati negli Offizierlager (detti Oflag) o in blocchi separati degli Stalag, dove non erano obbligati a lavorare, ma furono sottoposti a continue pressioni per convincerli ad aderire alla Repubblica Sociale Italiana. La maggior parte di loro, nonostante le crescenti e drammatiche difficoltà in cui si trovarono, non si piegò.
Arrivati nei lager, ciò che attendeva gli IMI erano il bagno, la disinfestazione, le vaccinazioni e la schedatura. Veniva quindi assegnato a ciascuno un numero al quale dovevano imparare a rispondere in tedesco negli interminabili appelli quotidiani. La loro dimora, di norma, erano delle baracche in legno e mattoni, costruite dai prigionieri rastrellati in Europa dopo l’invasione della Polonia nel 1939. Tra le testimonianze delle loro condizioni di vita c’è una serie di fotografie (circa 400) scattate dall’ufficiale Vittorio Vialli, internato nei campi di Luckenwalde, Benjaminowo, Sandbostel e Fallingbostel, il quale, con l’aiuto dei compagni, riuscì a nascondere una piccola Leica sequestrata, poi sostituita alla Zeiss Super Ikonta. Foto che costituiscono una straordinaria documentazione della tragica quotidianità dei lager nazisti, ma anche di alcune esperienze di elevato valore etico: le foto scattate a “Radio Caterina” (ricevitore clandestino) o al “laghetto” di Sandbostel, dove si svolse una simbolica protesta degli internati. Nell’aprile del 1945 Vialli riuscì infine a documentare l’arrivo degli inglesi, restituendo l’emozione di quei momenti.
Il momento più drammatico della storia degli IMI resta comunque l’atto di trasformazione degli Internati Militari Italiani in “lavoratori civili” avvenuta nell’agosto del 1944, a seguito di un accordo siglato tra Hitler e Mussolini il 20 luglio. Questo passaggio in realtà non migliorò molto le loro condizioni di vita, ma ne rese più efficiente lo sfruttamento in un momento in cui i tedeschi avevano una crescente necessità di mano d’opera coatta. E tale trasformazione, non a caso, avvenne quasi contemporaneamente all’emanazione in Germania di direttive sulla “guerra totale”, che coinvolsero la vita pubblica ed economica dei tedeschi con il fanatico obbiettivo di raggiungere la vittoria finale.
A partire dal dicembre 1944 la coercizione lavorativa riguardò anche gli ufficiali (vennero esentati solo generali, cappellani, medici, malati e ultrasessantenni) violando ogni residuo diritto internazionale. Eppure, anche allora, vi fu chi si rifiutò di collaborare con i tedeschi. “Io non lavorerò mai per il nemico”, scrive l’ufficiale Mario Fantinelli, il 29 gennaio 1945 nel diario che riuscì a nascondere ai controlli. Ma il caso forse più emblematico avvenne nel lager di Wietzendorf, quando 214 ufficiali si rifiutarono di lavorare, rimasero nelle baracche e per alcuni giorni non si presentarono agli appelli quotidiani. Le SS, sopraggiunte sul posto, ne richiamarono 21 fuori dai ranghi per avviarli alla fucilazione. Fu allora che 35 volontari si offrirono per sostituire i condannati, ma 9 non vollero approfittare di tanta generosità. In 44, dopo la commutazione della pena in carcere, furono avviati nello Strafflager di Unterlüss, in Germania, campo di lavoro e sterminio dove le possibilità di sopravvivenza erano minime. Tra quei coraggiosi ufficiali, che con il loro gesto si erano voluti richiamare ai valori del Risorgimento, sentendosi emuli dei “martiri del Belfiore”, vi era Michele Montagano, che vide morire alcuni dei suoi compagni e che, come lui stesso ricorda, si salvò solo grazie al repentino arrivo degli Alleati.