10 giugno 1940: Mussolini entra in guerra. L’analisi di Matteo Luigi Napolitano
di Matteo Luigi Napolitano*
Un museo tematico sulle guerre mondiali non può tralasciare di ricordare che il 10 giugno 2020 ricorre l’ottantesimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia. Fu un evento drammatico, che avrebbe condizionato il futuro della Nazione nei molti anni a venire.
Non entreremo nel dibattito storiografico, ricco ma anche accidentato, sulle scelte di politica estera di Mussolini. Ci limiteremo a ricordare gli eventi che di fatto trasformarono il rapporto fra l’Italia e gli ex alleati della Grande Guerra, e fra l’Italia e la Germania, la grande sconfitta di quella guerra.
Ancora a metà degli anni Trenta Mussolini sembrava non volersi allontanare dai suoi antichi alleati del 1915-18. La guerra d’Etiopia e le sanzioni (una canzonetta italico-fascista derideva l’ambiente ginevrino come la “Società delle Sanzioni”), avevano di certo creato una frattura tra Roma da una parte, e Londra e Parigi dall’altra. Ma si erano davvero rotti definitivamente i ponti? Su questo tema è imperversato intorno agli anni Ottanta un vivace dibattito storiografico circa gli ultimi spiragli per salvare la pace.
Detto senza infingimenti, anche le “democrazie” ebbero le loro responsabilità. Non furono loro ad assecondare Hitler in ogni sua sfida e in ogni sua richiesta, sul falso presupposto che fosse l’ultima? Non si erano, Londra e Parigi, illuse che si potesse in fin dei conti ammettere una “violazione limitata” del Trattato di pace di Versailles del 1919, al fine di ricondurre Hitler alla ragione? Non si spiegherebbero altrimenti la rimilitarizzazione della Renania (1936), l’annessione tedesca dell’Austria e l’annessione del territorio dei Sudeti ai danni della Cecoslovacchia (entrambe del 1938). Questi episodi rappresentano l’era dell’appeasement, ossia della condiscendenza delle grandi potenze verso la Germania hitleriana: atteggiamento del tutto fallimentare, come i fatti avrebbero poi dimostrato.
Quando si arriva al 1939 è ormai tardi per rimediare. Il Premier inglese Chamberlain ha scoperto che la Conferenza di Monaco, che ha ceduto a Hitler la regione dei Sudeti, non ha portato «la pace per il nostro tempo». Hitler è rimasto quello che era, inutile volerlo trasformare in un interlocutore rispettabile. E la prossima vittima sarebbe stata la Polonia, minacciata con la richiesta tedesca di cedere alla Germania il “corridoio di Danzica”.
Le democrazie si accorsero tardi di aver sbagliato, ma garantirono unilateralmente la Polonia contro la minaccia hitleriana. Era la fine dell’appeasement? Anche su questo punto la storiografia è di vario orientamento (è indubbio che, persino all’undecima ora, si volesse convincere la Polonia a cedere alle richieste hitleriane). Ma Hitler colse tutti di sorpresa, garantendosi la neutralità sovietica in caso di guerra, grazie al Patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov (dal nome dei due ministri, tedesco e sovietico, che lo firmarono). Di questa svolta si trascurano tuttavia due elementi che invece ci sembrano importanti: a) la presenza di un protocollo segreto con cui Berlino e Mosca si spartirono la Polonia e i territori baltici; b) un successivo “patto di amicizia” che tedeschi e sovietici firmarono a un mese esatto dal Patto Ribbentrop-Molotov: ciò che trasformava il rapporto bilaterale in qualcosa di più di un semplice impegno di non aggressione reciproca.
Le democrazie, ma ancor più l’Italia fascista, furono colpiti dal colpo di mano diplomatico di Hitler. Non aveva il Führer fatto capire che un accordo col bolscevismo era la cosa per lui più innaturale? Non aveva promesso Hitler di consultarsi con la neo-alleata Italia per ogni decisione di politica estera, che in qualche modo riguardasse anche il suo “maestro” Benito Mussolini?
Il “Patto d’Acciaio”, firmato il 22 maggio 1939, aveva legato a doppio filo l’Italia al carro tedesco. Quel trattato, firmato senza che nessuno (né Ciano, né lo stesso Mussolini) ne controllasse la bozza in tedesco, faceva decadere una “tradizione sabauda” di alleanze: quella dei trattati difensivi, per i quali il casus foederis sarebbe scattato solo qualora l’alleato avesse subito un attacco non provocato da una terza potenza. Ma il Patto d’Acciaio stabiliva che i due alleati si sarebbero assistiti reciprocamente nel caso in cui uno dei due fosse coinvolto in “complicazioni belliche” con una terza potenza. Ora, siccome le “complicazioni” le si poteva subire ma anche provocare, è chiaro che il Patto d’Acciaio, rovesciando tutta la “tradizione sabauda”, impegnava l’Italia mussoliniana in un’alleanza di tipo offensivo. Se infatti Hitler avesse provocato “complicazioni belliche” in Europa o altrove, Mussolini si sarebbe trovato obbligato ad assisterlo.
E’ qui che comincia il mesto teatrino della “non belligeranza” italiana: neologismo coniato da Mussolini per distinguerlo dalla neutralità di una Svizzera qualunque. Un neologismo semi-marziale che malcelava la frustrazione del “duce” per essere caduto nel gorgo hitleriano a causa della sua insipienza diplomatica; con l’aggravante di non poter egli “marciare” a fianco di Hitler per la completa impreparazione militare dell’Italia, colpevolmente celatagli dai suoi condiscendenti collaboratori e da molti ambienti militari.
Ecco dunque svolgersi la tragicommedia della “lista del molibdeno”: un elenco enciclopedico delle forniture di materie prime e di altro materiale che l’Italia desiderava dalla Germania per poter “marciare” al suo fianco. Una tragicommedia declinatasi in farsa allorché l’ambasciatore italiano a Berlino aggiunse, come sua personale “glossa”, che dette forniture andavano inviate entro le ventiquattr’ore. Hitler non poteva assicurare una tale entità di rifornimenti e accettò che l’Italia stesse fuori dal conflitto: ulteriore smacco per Mussolini, dato che il messaggio era che la Hitler sapeva fare da sé.
C’è poi da considerare un “non detto” della politica estera fascista: l’idea che Mussolini aveva della futura collocazione geopolitica della Germania era ben diversa da quella di Hitler. Chi ha studiato l’intervento in guerra dell’Italia spesso ha tralasciato di notare che, per quanto di breve vita e di scarsa autonomia, quella di Mussolini, più che una “guerra parallela” a fianco alla Germania, fu una “guerra divergente” dai piani di quest’ultima; come dimostra il caso greco.
Nel periodo di “non belligeranza che va dall’invasione tedesca della Polonia (1° settembre 1939) all’entrata in guerra dell’Italia (10 giugno 1940), Mussolini sperimentò quindi la frustrazione del maestro superato dall’allievo. La “guerra lampo” a est, il “condominio” nazi-sovietico sulla Polonia e poi l’attacco a ovest, e poi la rapida sconfitta della Francia a opera delle armate tedesche avevano reso il “duce” impaziente e sicuro di sé, ma su due falsi presupposti: quello di poter cavalcare il successo tedesco sulla Francia con ricchi premi a basso costo, e a spese di un uomo ormai a terra (cosa disdicevole per l’onore militare dell’Italia); e la certezza che la Gran Bretagna di Churchill avrebbe chiesto la pace subito dopo l’armistizio francese; senza immaginare che la Gran Bretagna sarebbe invece andata avanti fino alla fine, anche da sola.
Non pochi cercarono di trattenere il “duce” dal volare nel baratro: lo fece Roosevelt, lo fece Pio XII, lo fece lo stesso Churchill. Ma Mussolini aveva perso ogni smalto politico, il suo fiuto annichilito dai miasmi ideologici d’oltre Brennero. La sconfitta di Mussolini, in verità, era già maturata sull’onda della letale imitazione della Germania, laddove l’ideologia nazista poteva assicurargli permanenza indiscussa al potere. Si trattasse delle scenografiche buffonate di Achille Starace, degli “archi di trionfo” o del “passo romano” plasmato sul “passo dell’oca”. Fino all’imitazione, la più tragica, nel mito della razza ariana e nella persecuzione razziale.
Su questi falsi presupposti si giocò il destino ultimo dell’Italia per i cinque anni successivi. Ed è forse questa data, il 10 giugno 1940, che consente meglio di ogni altra di spiegare le parole rivolte da Alcide De Gasperi ai colleghi assisi alla conferenza parigina della pace. «Tutto è contro di me, tranne la vostra personale cortesia». Segno di un’Italia nuova che aveva accettato di accollarsi il fardello della disfatta mussoliniana, senza la certezza che la ritrovata libertà e le nuove istituzioni democratiche fossero per i vincitori prova sufficiente e convincente per riaccoglierla in Europa su un piano di parità.
(*)Università degli Studi del Molise. Direttore Scientifico del MIGM