Il ritrovamento del “Cristo della dolina dei 500”.
Una storia poco conosciuta e controversa che però ha un solo denominatore comune: la ricerca del volto di Cristo nelle ore più difficili e drammatiche di un conflitto senza senso come la Prima guerra mondiale. I luoghi della Grande Guerra nascondono e conservano la memoria di migliaia di soldati che per fede o per religiosità popolare sentirono il bisogno di rivolgersi a Dio. Così sotto le trincee, sulle doline, nei passi di montagna e nelle retrovie di un conflitto di posizione e di logoramento fatto di attesa, di ricordi delle famiglie lontane e di preghiere furono erette piccole chiesette, altari dove i cappellani militari celebravano messa ed edicole votive. Tutti segni di una religiosità popolare che esprimevano il bisogno dei militari di cercare Dio nei diversi fronti in cui furono chiamati alle armi, ossia dove trovarono la morte migliaia di persone.
A distanza di molti anni questi fronti sono stati ripercorsi da studiosi di storia della Grande Guerra come Antonio Scrimali, tra i più attivi ricercatori di memorie storiche legate al primo conflitto mondiale, e di appassionati cultori come Mario Bin. I due si conobbero in Val Dogna. Oggi Mario Bin abita a Vermegliano ha 94 anni e una mente lucidissima. Basta parlargli per aprire in lui capitoli di ricordi come quelli che lo riportano al Carso, ai giorni quando giocava con i suoi amici in mezzo a mucchi di anticaglie che facevano della Grande Guerra un museo a cielo aperto. Il padre di Bin aveva lavorato come scalpellino al vecchio cimitero del S. Elia. Incideva sulle lapidi i nomi dei caduti e Mario, allora quattordicenne, dipingeva le incisioni “ripassandole” con la vernice nera.
L’appaltatore dei lavori, un certo Ferrari, riconoscendo l’abilità di Mario gli assegnò un lavoro di fiducia, facendogli dipingere i nomi
degli ufficiali nella cappella monumentale alla sommità del colle, ma non appena assunto regolarmente i lavori vennero fermati per via della costruzione nel 1934 del nuovo Sacrario di Redipuglia.
“Mario – racconta Sergio Spagnolo del Comitato Pro-Plava – rimasto disoccupato, assisteva alle varie fasi di costruzione del grande Sacrario, mentre il vecchio cimitero monumentale del S. Elia veniva dismesso e la cappella monumentale sulla sommità del colle fatta saltare con la dinamite dal Genio; tutto questo probabilmente fece scaturire in lui l’interesse per questo tipo di ricerche e è custode di innumerevoli ritrovamenti documentati in un’imponente collezione di fotografie”.
Fu così che nel 1993 scavando fra i detriti in una dolina sul Monte Sei Busi, sopra a Vermegliano, dove ricordava i resti di un cimitero di guerra dismesso scoprì un volto di Cristo finemente lavorato in pietra. “Dopo averlo fotografato riseppellì nuovamente il reperto come faceva in precedenza con molti altri manufatti, perchè il suo interesse consisteva solo nel fotografarli – aggiunge Spagnolo -. Alcuni anni dopo, parlando del ritrovamento a Antonio Scrimali fu convinto a mostrargli il luogo dove si trovava il ritrovamento”. Lo studioso Scrimali che era in possesso di una foto della dolina con una grande fossa al centro, giunto sul luogo e disseppellito il reperto, capì immediatamente l’enorme importanza del ritrovamento e decise di spostare il reperto in una dolina adiacente perché ritenuto un posto più sicuro. Qualche giorno dopo sotto una pioggia battente andarono a recuperarlo. Era il 24 marzo 1995.
Del ritrovamento, prosegue nel racconto Sergio Spagnolo “fu avvisato il Maggiore Armando Di Giugno, allora direttore del Sacrario di Redipuglia che data la vicinanza del ritrovamento al Sacrario, la dolina dista meno di un chilometro in linea d’aria gli diede subito una grande importanza e una volta visionato il reperto che nel frattempo era stato portato nel giardino di casa di Mario Bin e ripulito dal fango, decise che sarebbe stato esposto nel museo di Redipuglia”.
Il cappellano militare del Sacrario padre Alberto Ferrante venuto a conoscenza del ritrovamento volle che l’effige in cemento mischiato con gesso del Cristo venisse collocato in una apposita teca sotto l’altare della cappella del Sacrario, così il 14 aprile 1995 venerdì Santo, con una cerimonia alla presenza di numerose autorità la testa del Cristo venne portata alla via crucis e salendo i gradoni del Sacrario su un’apposita portantina arrivò fino alla cappella dove trovò dimora sotto l’altare.
Di quello che molti durante gli anni hanno definito il “Cristo della dolina dei 500” successivamente non mancarono dibattiti e polemiche per via di una seconda foto ritrovata nell’archivio fotografico del Museo provinciale della Grande Guerra di Gorizia in cui si ritraeva la stessa dolina e con al centro un monumento ornato dalla targa con la palma e sovrastato da una grande croce con al centro l’effige del Cristo, in cui una didascalia apposta dal Genio la definiva: “Dolina dei 500”. La foto, aggiunge Spagnolo “scattata da lontano e da posizione elevata rispetto all’effige, fece scaturire qualche dubbio, osservata minuziosamente e confrontata con le foto e il reperto, secondo alcuni esperti avrebbe presentato notevoli differenze con in Cristo rinvenuto nella dolina di Monte Sei Busi, soprattutto gli occhi che nella vecchia foto sarebbero
chiusi, mentre quelli del Cristo ritrovato sembravano aperti”.
Iniziò quindi una stagione di controversie e batti e ribatti che condussero alla rimozione del Cristo dalla teca e alla sua collocazione per anni in un magazzino del Sacrario.
Oggi il Cristo si trova nuovamente esposto nella cappella del Sacrario, ma non è collocato in un punto centrale. Nella didascalia si legge: “Volto del Cristo sofferente rinvenuto in una dolina carsica”. Resta comunque di grande interesse non solo per via delle varie tesi e congetture che sono ruotate attorno al “Cristo della dolina”, ma soprattutto per il significato che quel volto racchiude per i caduti principalmente, ma anche per pellegrini, parenti che fanno visita alla cappella del Sacrario.
L’interesse, tuttavia, di appassionati, cultori e storici locali attorno al manufatto resta sempre vivo: “Pochi giorni or sono mentre ero alla ricerca di materiale fotografico su Monte Sei Busi da pubblicare su un nuovo memoriale che uscirà a breve a cura del Comitato Pro chiesa di Plave per finanziare i lavori di ripristino della cappella dell’ex cimitero militare di Plave in Slovenia ho trovato con grande sorpresa una foto non nota del monumento della dolina – rivela Sergio Spagnolo l’immagine presa dal basso verso l’alto e molto più da vicino, mostra particolari inconfutabili del Cristo ritrovato da Mario Bin e Antonio Scrimali, occhi socchiusi, posizione delle spine della corona, profilo di uno zigomo, particolari della capigliatura, confermate da metodi scientifici di comparazione, inoltre, grazie a una scritta con la data del 1917 posta sul retro della fotografia che trova conferma anche in un memoriale di due reduci, possiamo stabilire che la dolina era chiamata anche: “Dolina della Morte”, mentre non esiste nessun riscontro storico sul nome con cui è ormai nota a livello nazionale: “Dolina dei Bersaglieri”. Ricordo – aggiunge Spagnolo – che quando vidi il Cristo sotto all’altare ne rimasi molto colpito allora non conoscevo i protagonisti di questa vicenda dalle tinte fosche, ma ora sono particolarmente felice e orgoglioso che si sia potuto far luce perché conoscendo personalmente Antonio Scrimali e Mario Bin, so quanto hanno sofferto a causa di questa amara vicenda”.
Al di là di qualsiasi polemica, ma soprattutto per contribuire alla riflessione sul “Cristo della dolina” Giorni di Storia resto aperto ad ulteriori commenti e riflessioni ad integrazione e solo per il semplice gusto di raccontare documentando, nella consapevolezza che quel volto di cui abbiamo raccontato la storia resta sempre il volto di Cristo, immagine e somiglianza di Dio creatore dell’Uomo. A maggior ragione, se sofferente, rappresentò e rappresenta la sofferenza umana nei luoghi di quella “inutile strage” che fu la Grande Guerra. Resta dunque una testimonianza per quanti, grandi e piccini, vanno in visita al Sacrario di Redipuglia che conserva i resti di tanti padri di famiglia che prima di morire proprio a Cristo si rivolsero, magari tenendo in mente quella o altre immagini scolpite della pietra del volto di Gesù crocifisso e abbandonato. Le polemiche e i dibattiti, seppur ci sono stati, passano dunque in secondo piano perché al centro di tutto c’è una motivazione di fondo sul perché l’autore, chiunque esso fosse, decise di scolpire quel volto.