Il caso Palatucci. Nascita di una polemica
Il caso di Giovanni Palatucci, il Giusto delle Nazioni Questore reggente di Fiume durante la seconda guerra mondiale, deportato e morto a Dachau, è inspiegabilmente rimbalzato di recente sulle cronache facebookiane, ponendosi fin da subito il problema di trovare una cifra giusta per parlarne con persone magari appassionate anche se non addette ai lavori.
Quando si tratta di temi del genere, non è raro vedere alcuni commentatori essere colpiti dalla “fatwa-del-taci-tu-che-non-sei-storico”, lanciata da altri. Come se su Facebook sia necessario esserlo, uno storico.
Portando un tema così importante, come quello di Giovanni Palatucci, su un social network, era perfettamente logico attendersi che molti commenti di persone civili e di buon senso non richiedessero la patente di storico.
Facebook non è una rivista accademica di fascia A. Nondimeno, dato che autorevoli storici hanno ritenuto di dover trattare il tema di Palatucci in questa sede, è perfettamente logico che anch’io, chiamato peraltro in causa, dica il mio modesto punto di vista.
– «Dice: come te chiami? Angelo Brunetti, Eccellenza, detto Ciceruacchio, gonfaloniere de Campo Marzio e de professione carettiere, se sente da come parlo.
– Dice: allora perché te sei ‘mpicciato de cose che nun te riguardano?
– Dico: perché io so’ carettiere, ma a tempo perso so’ omo, e l’omo se ‘mpiccia, eccellenza».
Ecco. Io ho incrociato la storia di Giovanni Palatucci esattamente da “carettiere”, come un Ciceruacchio qualunque che avesse deciso di impicciarsi; esattamente come il Ciceruacchio di Nino Manfredi nel film “In nome del popolo sovrano”.
La storia di Palatucci è la seguente. Da Giusto tra le Nazioni a nazifascista. Da salvatore a collaborazionista. Da amico degli ebrei a loro carnefice, o a spettatore della carneficina.
Capito che carriera inversa, questa di Giovanni Palatucci, descritta da una certa “storiografia”?
Qui non c’entra la storia di quanti ebrei Palatucci abbia salvato.
Il numero legale è: uno. Basta salvare una sola persona per essere Giusto.
Né c’entra la sua beatificazione. E’ roba da teologi. Certamente, so bene che ogni beatificazione esige (dico: esige) una “positio historica”, ossia una biografia assai documentata del “beatificando”. Ma, da sola, una biografia storica non porta di per sé né alla beatificazione né alla canonizzazione.
Ero a Gerusalemme in una delegazione ufficiale, ospite di Yad Vashem, quando m’imbattei in Giovanni Palatucci.
Siccome mi piaceva impicciarmi e di Palatucci avevo già sentito parlare, chiesi se era possibile avere i dossier su questo Giusto tra le Nazioni. Fui accontentato, e anche con grande e gentile sollecitudine.
Tenni a lungo quei faldoni nel mio studio privato. Li lessi tutti. Ma non sapevo che un giorno li avrei compulsati così a lungo.
Accadde nel 2013, quando scoppiò la polemica revisionista sul Giusto irpino Giovanni Palatucci. Accadde quando si diffuse un’altra narrazione su Palatucci, quella di una vera e propria “leggenda nera”.
1) Location della “leggenda nera”: una Tavola rotonda a New York, organizzata dal Primo Levi Center (PLC) nella primavera del 2013.
2) Personaggi e interpreti: Marco Coslovich che, in un libro esaltato dal Primo Levi Center come opera magistrale su Palatucci, scrive di un dramma teatrale contro Pio XII dicendo che «l’opera uscì nel 1963 e Papa Pacelli ne proibì la rappresentazione a Roma» (M. Coslovich, “Giovanni Palatucci. Una giusta memoria”, introduzione di Carlo Spartaco Capogreco, Atripalda, Mephite 2008, nota 41 a p. 31).
Se volevamo la prova di un miracolo di Pio XII per la sua canonizzazione, ce l’ha data Marco Coslovich facendolo resuscitare.
3) Personaggi e interpreti: Mordechai Paldiel, ex Direttore del Dipartimento Giusti di Yad Vashem. Nella conferenza newyorchese del PLC, Paldiel dichiara che lavorando a Yad Vashem non erano emersi salvataggi di ebrei compiuti da Giovanni Palatucci; al di fuori di una sola signora ebrea, la cui testimonianza è stata riconosciuta.
4) La narrazione di Mordechai Paldiel aveva molte falle, per le seguenti ragioni:
a) Fu Paldiel che dichiarò Giusto Giovanni Palatucci;
b) fu lui ad occuparsi di Palatucci fin dagli anni Ottanta, e a raccomandare ai suoi collaboratori (in una lettera del 1985) massima cura soprattutto nella ricerca di documenti, ancor prima che delle testimonianze;
c) fu Paldiel che, ben cinque anni dopo aver dichiarato Giusto Palatucci, assicurò chiunque gli chiedesse informazioni che il poliziotto irpino aveva salvato molti ebrei preavvisandoli delle retate e facendoli fuggire dal cosiddetto «canale fiumano» (le frastagliate coste di Fiume e di Abbazia da cui ci si imbarcava per cercare la salvezza in sud Italia);
d) fu Paldiel a dirigere la commissione che, ricevuto uno scritto di Coslovich con le prime critiche su Palatucci, lo archiviò senza darvi troppo peso;
e) ora questo Paldiel affermava che Palatucci aveva salvato, non più «many Jews», ma una sola ebrea, Elena Ashkenazy, la cui testimonianza riconosceva come l’unica valida;
f) ma che fine avevano fatto le altre testimonianze, ora da Paldiel disconosciute?
g) e infine, non sapeva Paldiel che la Ashkneasy faceva i nomi di membri della sua famiglia salvatisi insieme a lei grazie a Palatucci (una decina di persone).
Dunque? Un’unica ebrea salvata o più ebrei salvati da Palatucci?
A questi interrogativi, trascurati dal fideismo con cui la nuova narrazione su Palatucci fu accolta da certi ambienti, nessuno ha dato risposta.
5) Intanto la leggenda nera creata dal Primo Levi Center lievitava mediaticamente.
Il Museo dell’Olocausto di Washington DC rimuoveva un padiglione dedicato a Giovanni Palatucci «dopo che i suoi funzionari hanno appreso di nuove prove secondo le quali, lungi dall’essere un eroe, egli fu un entusiasta collaboratore nazista coinvolto nella deportazione degli ebrei ad Auschwitz».
6) Dall’Ufficio del Borgomastro di Dachau venni informato che una targa in memoria di Palatucci, che il nostro Capo della Polizia (in rappresentanza delle Istituzioni italiane) aveva collocato non molto tempo addietro, era stata oscurata “more sovietico” con un panno. Della serie: i “braghettoni” sono sempre fra noi.
8) L’eco mediatica del revisionismo storico su Palatucci fu immensa. Basti guardare i titoli dei maggiori quotidiani del mondo. “L’Italiano osannato per aver salvato ebrei è ora considerato un collaborazionista”, “Tutte le ombre sulla vita dello Schindler italiano”, “Palatucci non fu Giusto”, “Palatucci collaborazionista”, “Altro che Giusto: sostenne le leggi razziali”. E così via. Da Gerusalemme qualcuno sussurrò addirittura che Yad Vashem avrebbe rivisto negli archivi la posizione di Palatucci.
Il termometro della polemica è stato registrato perfino dal “Dizionario Biografico degli Italiani” dell’Enciclopedia Treccani, che alla voce “Palatucci, Giovanni” a firma di Gianni Fazzini ha evidenziato quanto segue: «La contestazione più integrale della ricostruzione della vicenda di Palatucci è stata apportata nel maggio 2013 da una ricerca del Primo Levi Center di New York, i cui esiti hanno avuto un certo risalto sulla stampa internazionale, che ha messo in dubbio non solo le dimensioni del suo intervento, ma il suo contributo effettivo alla causa dei profughi ebrei, fino ad avanzare il sospetto che fosse stato un fiancheggiatore dei nazisti, responsabile della deportazione in Germania di 412 ebrei fiumani».
Come reagire al fideismo acritico con cui era stata accolta la nuova “narrazione” su Giovanni Palatucci?
Anzitutto era necessario analizzare la vicenda in base alla documentazione esistente; in secondo luogo, andava chiesto al Primo Levi Center (da dove il fango su Palatucci era piovuto) di mostrare le sue “carte”, di metterle a disposizione degli studiosi per vedere se davvero esse avvaloravano per Giovanni Palatucci «il sospetto che fosse stato un fiancheggiatore dei nazisti».
E’ quello che, da umile “carettiere”, ho cercato di fare.
PRIME REAZIONI ALLO SCOPPIO DEL “CASO PALATUCCI”
(2 – Continua dal post precedente)
Scoppiato il caso Palatucci al Primo Levi Center, io reagii con ciò che avevo: usai le carte di Yad Vashem su “Avvenire”, per un fondo in Cultura.
Le mie riflessioni si riverberarono anche su Gariwo; e non passò molto tempo che anche il “Corriere della Sera” mi chiese un commento. Intervistato, dissi che l’operazione del Primo Levi Center e di Natalia Indrimi contro Giovanni Palatucci aveva tutta l’aria di un falso storico.
Natalia Indrimi reagì negando (con una faccia tosta che le invidio) di aver mai affermato che Palatucci «lungi dall’essere un eroe, fu un entusiasta collaboratore dei nazisti coinvolto nella deportazione degli ebrei ad Auschwitz». Ma siccome conoscevo bene le sue esternazioni mediatiche (per esempio le dichiarazioni rilasciate al New York Times), mi bastò virgolettarla sempre sul “Corriere della Sera” per ridurla a un silenzio che la Indrimi avrebbe dovuto mantenere di suo, almeno per decenza.
A sentire la Indrimi, che non mi risulta essere una storica, gli studiosi del suo “gruppo” avrebbe studiato a Fiume «circa settecento documenti».
Di questi studiosi ho i nomi. Li ho scoperti da poco.
Li farò in un mio prossimo post, quando collegherò il gruppo del Primo Levi Center a quello nato intorno al CDEC, di cui anch’io ho fatto parte.
Quest’ultimo gruppo al CDEC era nato per verificare ciò che al Primo Levi Center si era affermato grazie ai risultati del suo “gruppo di lavoro”. Erano queste le regole d’ingaggio.
Le Istituzioni che avevano voluto che questa Commissione nascesse e lavorasse al CDEC avevano espressamente chiesto di verificare le affermazioni contenute nei dossier (i cosiddetti “report”) pubblicati dal Primo Levi Center. E nei documenti da questo usati.
La Commissione insediata al CDEC doveva essere quindi indipendente, lavorare in maniera indipendente, e pubblicare un rapporto indipendente.
Perché tutto ciò non sia accaduto sarà oggetto di un mio prossimo intervento.
Per ora andiamo avanti.
Le settecento carte trovate all’Archivio di Stato di Fiume dimostravano tutte le colpe di Palatucci? Come accertarlo? Molto semplice: prendendosi la briga di leggerle una a una.
Io avevo concluso il mio primo intervento su “Avvenire” nel modo seguente: «Ora nuove presunte verità storiche su Palatucci vengono a galla e compete agli studiosi occuparsene: purché l’annunciato nuovo dossier su Palatucci sia prontamente e liberamente consultabile».
La richiesta della comunità scientifica era che a questo punto il Primo Levi Center mettesse le sue carte a disposizione degli studiosi per le verifiche del caso.
Questa richiesta cadde nel vuoto. Cadde nel vuoto per altri due mesi dall’inizio dei lavori della Commissione internazionale insediata al CDEC, di cui facevo parte.
Finalmente, dopo molti traccheggiamenti, il 17 febbraio 2014 il PLC accettò di caricare i famosi settecento documenti in un dropbox comune, in cui peraltro ognuno di noi avrebbe messo a disposizione di tutti gli altri i documenti che aveva e quelli reperiti in altri archivi.
Nel frattempo, allo stato dei fatti la situazione era la seguente. Almeno per un senso di rispetto verso la memoria, non dico di Giovanni Palatucci, ma dei tanti ebrei che per lui avevano testimoniato, Natalia Indrimi, Marco Coslovich e Mordechai Paldiel avrebbero almeno potuto concordare su un punto: se e quanti ebrei Palatucci avesse salvato.
Il risultato sparato sui giornali di tutto il mondo pareva infatti uno 0-0-1. Per la Indrimi Palatucci non aveva salvato ebrei; per Coslovich neppure; per Paldiel Palatucci aveva salvato una sola ebrea (che però testimoniava che Palatucci ne aveva salvati altri nove).
Andava poi registrata un’altra circostanza: l’autorevole Mordechai Paldiel al Primo Levi Center nel 2013 non era l’autorevole Mordechai Paldiel dell’epoca in cui lavorava a Yad Vashem.
Erano lontani i tempi di lettere come questa:
«Caro Ambasciatore, stiamo attualmente esaminando il ruolo del defunto Dr. Palatucci nel salvataggio di vite di ebrei in Fiume durante la seconda guerra mondiale, dato che a causa di ciò fu arrestato e deportato nel campo di Dachau, dov’è perito. Gradiremmo avere maggiori particolari su quest’uomo coraggioso, inclusa qualsiasi documentazione sia disponibile a tal riguardo».
Firmato: Mordechai Paldiel.
IL MITO DI PALATUCCI CHE NON SALVO’ EBREI. LA “CARTUCCELLA” DEL 1952 (3)
Il fatto che un documento rintracciato in archivio sia autentico non necessariamente implica che esso sia anche veritiero o esaustivo o affidabile, e ciò almeno per due basilari ragioni:
a) le informazioni fornite da chi scrive sono volutamente false o semplicemente incomplete e imprecise, o filtrate da una mente incapace di cercare nei precedenti di ogni singolo dossier;
b) chi scrive quel documento è aggiornato “a bocce ferme”, ossia per limiti oggettivi fotografa la situazione per come gli risulta in quel momento e, ignaro dell’esistenza di altra documentazione, ha una comprensione limitata della realtà, descrivendola solo in base a ciò che ha sotto il naso, e non comparando (o non potendo comparare) ciò che ha sotto il naso con un più vasto corpus documentario.
La bolsa “guerra mediatica” scatenata contro Giovanni Palatucci è stata ingaggiata al peana di “Tenghe la cartuccella!” (per i più formali: “Ho in mano il cartiglio probante”).
La “cartuccella”, in questo caso, è un vecchio documento del ministero degli interni del luglio 1952, conservato nel cosiddetto “primo versamento” del fascicolo personale dei funzionari di polizia fuori servizio. Secondo la narrazione, quella “cartuccella” del 1952 stava a dimostrare che non risultava che Palatucci si fosse mai occupato di ebrei.
Ma cosa diceva esattamente la “cartuccella”? E’ un appunto datato 30 luglio 1952, diretto all’allora Vicecapo della Polizia italiana: un dattiloscritto lungo poco più di una pagina.
Esso così esordiva:
«Da un accurato esame del fascicolo personale del defunto dott. Palatucci Giovanni (commissario aggiunto e non già vice questore) non si sono rilevati elementi che comprovano l’attività del medesimo svolta in favore degli ebrei».
Ora. Io, da plebeo “carettiere de Campo Marzio” (per citare Nino Manfredi), non appena lessi questo documento mi posi subito delle domande.
Prima questione: dal 1952 molta acqua archivistica era passata sotto i ponti nella storia di Giovanni Palatucci; molte carte d’archivio si erano aggiunte al suo fascicolo personale.
Perché studiare nel ventunesimo secolo Palatucci fermandosi alle carte del 1952? E dopo? Non c’erano altre carte?
E’ come se io lavorando a Quattroruote pubblicassi nel prossimo numero la recensione di una Opel Rekord del 1981 presentandola come l’ultima novità.
Ecco: perché in questo dibattito si è usata la “cartuccella” del 1952 senza contestualizzarla, e soprattutto trascurando altre carte archivistiche che erano sotto il naso? Lo si è fatto “ad usum”: per dimostrare che Palatucci non si occupò di ebrei?
Si è per caso voluto far giustizia dell’apologia di Palatucci con lo strumento dell’ “ipologia”?
Seconda questione. Sveliamo il contesto. Chi scriveva in quell’estate del 1952 che Palatucci non si occupò di ebrei rispondeva a una precisa domanda posta dal vicecapo della polizia italiana: se Palatucci avesse salvato ebrei, come si ripeteva sempre più insistentemente in Israele.
Ora, in quel 1952 al Ministero degli Interni mancavano elementi probanti. E infatti l’estensore della “cartuccella” così concludeva: «In dipendenza di quanto sopra ed in considerazione che mancano elementi per poter stabilire se e quale specifica attività [Giovanni Palatucci] abbia svolto in favore degli ebrei, non sembra che sia il caso che il governo debba promuovere un qualsiasi riconoscimento al di lui nome, salvo che il governo d’Israele non dovesse farne richiesta ufficiale, in base alla quale questo ministero, se del caso, potrebbe fare esperire le necessarie indagini per accertare la consistenza di quanto segnalato da S.E. il vescovo di Campagna (Salerno)».
Capito? Lo scrivente del 1952 in pratica diceva: noi qui al Ministero di Giovanni Palatucci non sappiamo nulla. Se in Israele ne sanno di più e se, come sembra, vogliono attivarsi per onorare Palatucci, in quel caso faremo «esperire le necessarie indagini». Segno che tali indagini non erano ancora state fatte per bene, dato che ci si era limitati a esaminare solo il fascicolo personale di Palatucci aggiornato (per modo di dire) al 1952.
Insomma, il Ministero per il quale Palatucci aveva lavorato non sapeva nulla dei suoi salvataggi di ebrei.
Ciò da un lato era naturale. Se uno vuol salvare ebrei non lo racconta di certo in un documento diretto ai superiori della Repubblica di Salò; non espone i salvataggi di ebrei sulla pubblica piazza di uno Stato nazifascista.
Ma l’appunto del 1952 interessa qui anche per un’altra ragione: il vescovo di Campagna menzionatovi era mons. Giuseppe Maria Palatucci, zio di Giovanni. Fu lui a sollecitare le autorità italiane a occuparsi del nipote, riconoscendone l’opera umanitaria.
Ma perché il vescovo Giuseppe Maria Palatucci fece ciò?
Lo si evince proprio dal fascicolo personale del nipote. L’estensore dell’Appunto del 1952 non poteva saperlo. Ma noi si!
Infatti, il documento del 1952 non ha alcun significato preso in sé, avulso da altri documenti appena posteriori.
Secondo questi documenti appena posteriori, risulta che Giovanni Palatucci godeva di una stima diffusa come salvatore di ebrei.
Nel 1955, per esempio, il Ministero degli Interni ricevette la richiesta della sede triestina del Fondo Nazionale Ebraico di onorare la memoria di Giovanni Palatucci. A Roma si dispose pertanto di avviare contatti con quell’organizzazione «al fine di un’eventuale adesione del Ministero alle onoranze».
Di più: proprio in quel frangente il Fondo Nazionale Ebraico insistette perché delle onoranze a Giovanni Palatucci fossero informati tutti i questori sparsi nella Penisola, affinché questi a loro volta informassero dell’opera di Palatucci tutti i funzionari di polizia italiani.
Questa documentazione era nota da tempo. Essa si trova infatti nello stesso dossier che ospita la “cartuccella” del 1952; appena pochi fogli dopo! Ora. Perché il Primo Levi Center l’ha ignorata? Perché il Primo Levi Center è rimasto ancorato alla “cartuccella” del 1952, ignorando ciò che accadde appena tre anni dopo; e ciò al fine d’insufflarci l’aria fritta del Palatucci collaborazionista? Dall’apologia si è passati all’ipologia!
Ma: e se vi dicessi che i documenti d’archivio in cui si segnala l’opera umanitaria di Palatucci risalgono addirittura al 1945 e al 1946? Credereste ancora alla “cartuccella”?
Infine una chiosa. Se andate all’archivio di Stato di Fiume, oltre alle carte della questura e (in parte) della prefettura sequestrate dai titini, trovate anche quelle jugoslave per l’istruttoria dei (sommari) processi ai collaborazionisti e in generale ai repubblichini. Trovate foto di circostanze private con asterischi sulle facce per riconoscere chi andava punito; dietro le foto, a volte, la sinistra scritta: «Liquidato». Trovate le foto dei giustiziati sulla pubblica piazza (appesi agli alberi sul viale del Fiume morto); trovate l’elenco completo del personale della questura, da ricercare casa per casa, cantone per cantone. Trovate diverse testimonianze sulle malversazioni del personale di polizia e della guardia repubblicana.
Ora. sul conto di Giovanni Palatucci i documenti dei comunisti titini dicono solo del bene: è considerato un benefattore finito a Dachau.
Questi documenti erano noti al Primo Levi Center. Essi ci dicono che, in mezzo alla giustizia sommaria titina esercitata contro i “questurini” di Fiume”, Giovanni Palatucci andava salvato. Se fosse rimasto a Fiume, invece di finire a Dachau, i titini non gli avrebbero torto un capello. Perché?
E infine: perché, a fronte delle tante testimonianze contro grassatori, malversatori e collaborazionisti, rese dalle loro vittime dopo la guerra, non abbiamo neppure una testimonianza contro Giovanni Palatucci, ma solo testimonianze in suo favore?
(CONTINUA)