Ryszard Kapuscinski: il giornalista che sapeva ascoltare
Ryzard Kapuscinski è stato un giornalista che, per dirla con le parole di un altro grande inviato di guerra, Egisto Corradi, ha “consumato le suole delle scarpe” per le vie polverose del continente nero anche a rischio della propria vita. Come quella volta, già intorno ai cinquant’anni, quando in una strada sperduta dell’Africa si trovò davanti a un gruppetto di bambini che gli puntavano i loro mitra addosso. Kapuscinski ne uscì fuori grazie alla provvidenza o forse per fortuna, ma scorrendo il suo ultimo libro Autoritratto di un reporter, edito da Feltrinelli, si capisce bene come quel proverbio africano sia lo specchio di tutta la vita del 74enne professionista polacco che del giornalismo non ha fatto un mestiere, ma la sua vocazione. Aprire il libro di Kapuscinski significa tuffarsi nella commovente etica umana e ontologica di un uomo cresciuto nella povertà che a un certo punto della propria esistenza decide di intraprendere un viaggio per descrivere mondi e lanciare un messaggio attraverso i suoi reportage: la comprensione e il rispetto per le sofferenze degli altri. Autoritratto di un reporter riporta alle origini di Kapuscinski, alle ragioni che lo hanno condotto a scegliere la professione di reporter, al suo approccio alla materia, alla sua visione del mestiere, al modo di scrivere, agli stili adottati, alle tematiche dei singoli libri, alla profonda trasformazione del mestiere di reporter rispetto all’epoca in cui non imperversavano i media. Il tutto è ricavato da un materiale di migliaia di pagine e di oltre cento conversazioni distribuiti tematicamente in varie sezioni con abilità dalla curatrice Krystyna Straczek (la traduzione italiana è di Vera Verdiani nda) che richiamano tra le righe a tutta la produzione pubblicistica di Kapuscinski da Imperium, Lapidarium, Il Negus, Shah in Shah fino a Ebano, La prima guerra del football e In viaggio con Erodoto.
Ogni pagina di Autoritratto di un reporter traspare l’amore per il diverso e il nuovo che ha portato lo stesso Kapuscinski a coltivare l’interesse verso l’antropologia e agli studi di Margaret Mead e di Bronislaw Malinowski. Quest’ultimo ai primi del ‘900 disse che non esistono razze, ma diversità umane. Kapuscinski lo ha scoperto viaggiando: “Si viaggia per vedere chi sono gli altri. Ma nell’istante in cui lo si scopre, si capisce anche chi siamo noi – dice il reporter -. Faccio un esempio. Io ho scoperto di essere un uomo bianco grazie al mio primo viaggio in Africa. Ero in Ghana, nel 1957, per vedere il primo paese dell’Africa subsahariana che ha ottenuto l’indipendenza. All’improvviso, per la strada ho notato che tutti mi guardavano. Ero diverso, avevo la pelle bianca. Non ci ho mai pensato prima”. Diceva Malinowski che “quella dell’antropologo è una presenza partecipativa – sottolinea Kapuscinski -. Lo stesso vale per il reporter, se vuole essere credibile. Ora c’è qualcosa di più che rende il reporter indispensabile e moderno. Il mestiere del reporter è affine a quello dell’interprete. C’è bisogno di costruttori di ponti tra le culture: gli interpreti e i reporter lo sono”. Quasi una risposta a chi, come Huntigton, teorizza lo scontro di civiltà, ma anche un modo semplice per evidenziare che è impossibile apprezzare e identificarsi nella propria cultura se non ci si è prima confrontati con le altre. “Più della rivoluzione in sé, mi interessa ciò che è avvenuto prima; più del fronte, quello che vi accade dietro; più della guerra, quello che verrà dopo la guerra. Si continuano a descrivere sempre nuovi attentati, colpi di Stato e rivolte senza mai spiegare nulla: bisogna cercare in profondità e risalire alle cause, che poi stanno nella cultura – ha modo di spiegare Kapuscinski -. Con quali motivazioni, se non con quelle di tipo culturale, spiegare il fatto che oggi certi Paesi dell’Africa si trovano a un livello superiore di altri, pur essendo partiti alla pari? La cultura si manifesta più nella vita quotidiana che nei rivolgimenti, per cui è proprio a essa che bisogna guardare”.
Questo sforzo umano e professionale resta una costante in Kapuscinski ed emerge da Autoritratto di un reporter e da tutte le sue opere. Tutto ciò nonostante non siano mancati momenti di scoraggiamento come nel ’56, anno in cui Ryzsard si trovava in India mentre imperversava la crisi di Suez e nel ’57 nella Cina comunista. Qui il giornalista cercò di raccontare nei limiti del possibile – e della censura di regime – due difficili realtà, ma non rimase immune dal senso d’impotenza, quasi di sconfitta davanti all’impenetrabile situazione politica, sociale e culturale indiana e cinese. Tuttavia sarà l’Africa a conquistare il cuore del reporter originario di Pinsk nel momento in cui entrerà a far parte della Pap, l’Agenzia polacca di stampa, in cui rivestirà un incarico senza precedenti: unico corrispondente estero dall’Africa tra il ‘62 e il ’66. Nel così detto Terzo mondo Ryszard Kapuscinski ritroverà se stesso e perfezionerà uno stile di scrittura asciutto, descrittivo e privo di enfasi ideologiche del tempo, caratteristico della metodologia di lavoro in uso nelle agenzie di informazioni moderne (complice il fatto che durante il periodo della guerra fredda, nel sistema politico socialista il giornalista doveva inviare i pezzi senza alcun commento. I lanci o take poi venivano pubblicati sul bollettino dell’agenzia riservato ai quadri dirigenti del partito, poi un redattore confezionava la versione tagliata e politicamente corretta per i giornali polacchi nda). In Africa, in America Latina e in Asia il Kapuscinski di Autoritratto di un report diventerà testimone e modello di un giornalismo che va alla ricerca della verità per il semplice gusto di raccontare fatti, luoghi e persone.
Kapuscinski in tutta la sua carriera fu testimone diretto di 27 colpi di Stato e Rivoluzioni. Venne imprigionato quasi quaranta volte e sfuggi a quattro sentenze di morte. Questo non lo fece smettere mai di trasmettere corrispondenze alla sua Agenzia d’Informazioni. Nei suoi viaggi conobbe Patrice Lumumba in Congo, Ben Bella in Algeria, Che Guevara a Cuba, Idi Amin Dada in Uganda… Era in Zanzibar durante le sommosse del 1964, coprì la guerra tra Honduras e El Salvador nel 1970 ed era in Sud Angola nel 1975, quando il paese, diventato indipendente dal Portogallo, entrò in guerra civile e fu invaso dal Sudafrica.
Il giornalista polacco ha lasciato in eredità ai giovani cronisti, ma anche a quelli con i capelli bianchi e con una esperienza di lungo corso alle spalle, magari dentro la macchina della “cucina” redazionale, un insegnamento che è divenuto anche un saggio di successo edito dalla Edizioni e/o dal titolo Il cinico non è adatto a questo mestiere. “E’ sbagliato scrivere di qualcuno senza averne condiviso un po’ la vita” si legge nel saggio che tratta delle difficoltà, delle regole, delle responsabilità degli intellettuali che fanno informazione oggi. Il tema di fondo, anche di grande attualità, è un interrogativo che fa riflettere chi svolge la professione giornalistica ogni giorno: come si raccontano le guerre, la povertà, la fame? Che rapporto c’è tra realtà e narrazione? E’ vero che la televisione e internet hanno cambiato irreversibilmente il modo di fare giornalismo?
Nel 2006 ha ricevuto una laurea honoris causa in traduzione e mediazione culturale presso l’Università di Udine e, nell’ottobre dello stesso anno, ha trascorso tre giornate in Italia, ospite del Centro per la Pace del Comune di Bolzano; è stata la sua ultima uscita pubblica. È morto il 23 gennaio 2007 a Varsavia