I Florio di Castellabate negli anni dell’emigrazione italiana in Brasile
Non è certo una novità quella secondo la quale tra i precursori dell’emigrazione italiana verso l’allora Impero del Brasile vi siano stati dei sacerdoti, per quanto non possiamo certo annoverarli tra coloro che praticavano la così detta “emigrazione di necessità”, così definita dagli storici in quanto spinta, infatti da motivazioni esclusivamente di natura economico-sociale. Indipendente dal Portogallo dall’ottobre del 1822, il Brasile ospitava, sin dal 1827, l’ambasciatore del Re delle Due Sicilie, accogliendo, quindi, nel vastissimo Impero centinaia di meridionali, mossi allora esclusivamente da motivi e interessi commerciali, avendo i Borboni inaugurato col Brasile una nuova rotta mercantile. A questi si sarebbero uniti, attorno al 1836, non pochi patrioti italiani, primo fra tutti Giuseppe Garibaldi, i quali aderirono e combatterono nei ranghi del movimento separatista per lo stato del Rio Grande do Sul, che volevano erigere in Repubblica indipendente, la gloriosa “Repubblica Riograndese”, che operò dal ’11 novembre 1836 e il 1º marzo 1845.
La “grande emigrazione” italiana verso il Brasile ebbe, invece, luogo nei primi anni ’70, ovviamente dell’Ottocento, allorquando la saggia politica dell’Imperatore Don Pedro II, celebre per aver varato un’era di pace e di benessere per il Paese, favorì una vasta corrente di emigrazione proveniente dall’Europa. Erano, quelli (1875 e seguenti), gli anni nei quali nel vastissimo Paese del Sud America erano riprese le esplorazioni di civilizzazione verso l’interno, intensificata la produzione agricola, spostando l’attenzione sulla produzione massiva del caffè, che ben presto soppiantò quella della canna da zucchero, creata la prima rete ferroviaria, ma soprattutto dato un notevole incremento alla marina mercantile. Unica piaga stridente era, purtroppo, quella della schiavitù delle popolazioni indigene, la quale fu abolita purtroppo solo nel 1888. Ebbene, la scoperta e la “civilizzazione” di nuove tribù e, quindi, la loro “evangelizzazione forzata” aveva imposto l’invio in Brasile di un numero incredibile di sacerdoti, e ciò – occorre dirlo – coincideva con un periodo storico nel quale in Italia, tra accuse di “filo brigantaggio” e leggi impopolari (quali quelle che soppressero gli ordini religiosi, confiscandone i beni, varate tra il 1866 e il 1867), preti, frati e monache non se la passavano certo bene. Ed è, quindi, proprio in tale ambito storico, caratterizzato dal fatto che la Chiesa cattolica era a quei tempi l’unica religione ufficiale dell’Impero, che ebbe inizio la vicenda che stiamo per narrare: quella dei fratelli Vincenzo e Gerardo Florio e del loro cugino Antonio, membri di un nutrito “Drappello” di sacerdoti Cilentani sfornati a decine in quegli anni dalla Badia Benedettina della Santissima Trinità di Cava de Tirreni (Salerno), i quali, tra il 1864 e il 1882, giunsero nello Stato di Rio Grande do Sul, operando in varie parrocchie, come approfondiremo a breve.
Il primo dei Florio che raggiunse il Brasile fu il Padre Antonio, figlio di Vincenzo e di Orsola Giannella, nato a Castellabate il 9 aprile del 1820, Canonico della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, il quale, nel corso del 1864, fu inviato dai superiori nello Stato del Rio Grande do Sul, ove officiò in varie parrocchie dell’entroterra, prima di assumere, il 9 novembre dello stesso anno, sebbene provvisoriamente la gestione della Parrocchia di San Francesco di Paola, nella località di Cima de Serra, un tempo abitata da indiani Caagua appartenenti alla tribù Coronado. Cima de Serra, che divenne municipio autonomo solo nel 1878, era inquadrata nell’ambito della Diocesi di San Pedro do Rio Grande, che a sua volta comprendeva l’intero Stato del Rio Grande do Sul. Padre Antonio Florio fu solo nel 1871 che divenne titolare della citata parrocchia, ove visse per molti anni e dove “prestò un buon servizio”, come ci ricorda lo storico Arlindo Rubert[1].
Verso la fine degli anni ’80, a seguito della rivoluzione (“Pronunciamiento” militare) che il 15 novembre 1889 costrinse Don Pedro II ad abdicare, il Governo provvisorio decretò (il 7 gennaio 1890) la separazione tra Stato e Chiesa, garantendo a tutti i cittadini la libertà di culto e di associazione religiosa, ma revocando, tuttavia, qualunque tipo di sovvenzione statale alle Chiese e dichiarando illegale qualsiasi attività religiosa che potesse, in qualche modo, innescare disordini popolari[2]. Non solo, ma nel 1891 nello stesso Stato del Rio Grande do Sul era scoppiata l’ennesima insurrezione contro il potere centrale, fomentata certo dai ricchi proprietari terrieri, ancora insoddisfatti per l’abolizione della schiavitù, che nelle piantagioni di caffè aveva innescato non pochi problemi, dovendo sostituire gli indios con manodopera proveniente dall’Europa. Fu, dunque, in quel clima particolarissimo che maturò l’idea di Don Antonio Florio di tornare in Patria. Il maturo sacerdote si sarebbe spento nella sua Castellabate il 4 marzo del 1892, minato non tanto dall’età ma dai tantissimi disagi cui era stato costretto durante gli anni trascorsi in Brasile a “evangelizzare” indios e ad assistere i tanti connazionali nelle sperdute piantagioni di caffè dell’entroterra. Proseguiamo la nostra storia ricordando che quattro anni dopo l’arrivo di Don Antonio in Brasile, varcò lo Stretto di Gibilterra anche suo cugino, Vincenzo Florio, figlio dello zio Costabile e di Maria Rosa D’Agostino, nato a Castellabate il 18 settembre 1827 e nominato Sacerdote presso la Badia Benedettina di Cava dei Tirreni, l’11 novembre del 1850. Don Vincenzo, che nel 1862 era stato nominato Canonico della Collegiata di Santa Maria Assunta di Castellabate, a differenza del cugino, raggiunse il Rio Grande do Sul per ben altre motivazioni, che vale la pena ricordare in questa sede, avendo prima citato al fenomeno del brigantaggio e quello del malessere sociale nel quale visse la Chiesa cattolica nei primi anni del Regno d’Italia. Ebbene, nel nostro Meridione, in un clima generale, che oggi potremmo definire da “stato di polizia”, si consumarono – principalmente, lo ricordiamo, nei primi anni ’60 – non pochi abusi ed errori giudiziari anche ai danni di ignari sacerdoti, ivi compresi alcuni uomini di Chiesa animati da idee liberali, come nel caso proprio di Don Vincenzo Florio, accusato di favoreggiamento al brigantaggio e come tale arrestato senza troppi complimenti.
Questi i fatti. La sera del 30 luglio 1864, almeno secondo la versione fornita al pubblico ministero che imbastì il processo dinanzi al Tribunale Militare di Guerra di Salerno, due soldati del 46° Reggimento Fanteria, tali Cesare Valentini e Gaetano Tamburrani, in libera uscita per le vie di Salerno, sarebbero stati fermati da un sacerdote che gli avrebbe chiesto di quale paese fossero originari. Saputo che il Valentini era originario dello Stato Pontificio, il sacerdote s’informò se si stava bene e meglio sotto il Governo del Papa. Subito dopo, il prete avrebbe invitato i due a bere una caraffa di vino nella taverna gestita da Teresa Majorano, caraffa che fu bevuta quasi per intero dal soldato Valentini. Dopo alcuni preamboli, il sacerdote avrebbe esortato i due soldati a disertare per andare coi briganti e portare con loro altri soldati. Ad un certo punto, avendo sentito l’eco del trombettiere che suonava la ritirata, i due militari si accinsero a lasciare il locale per rientrare in caserma. Fu così che il sacerdote propose loro un appuntamento per il giorno seguente, sempre nei pressi della medesimo locale, nel corso del quale avrebbe dato loro una lettera di presentazione per un noto capo brigante. Rientrati in caserma i due riferirono l’accaduto all’aiutante maggiore del Reggimento e, quindi, allo stesso comandante del reparto, il quale ordinò ai dipendenti di recarsi all’appuntamento, accettare la lettera e poi arrestare il sacerdote. L’uomo di Chiesa non si presentò all’appuntamento come avevano dichiarato Valentini e Tamburrani, ma fu incontrato per caso solo il 1° agosto successivo. Il sacerdote, sempre secondo l’accusa, avrebbe fatto cenno al Valentini di seguirlo e subito dopo, fuori dalla taverna, gli avrebbe consegnato una lettera, apparentemente indirizzata a tale Don Carmine, di Buccino, pregandolo però di seguirlo in località Torrione, ove addirittura gli avrebbe consegnato anche la considerevole somma di cinquanta napoleoni d’oro (circa 40 lire).
Fu solo in quel momento che il soldato Valentini, aiutato dal compare Tamburrani, procedette all’arresto del sacerdote, che in caserma fu identificato appunto nel canonico Don Vincenzo Florio. I due consegnarono all’ufficiale la lettera indirizzata a tale Vincenzo, nella quale si faceva cenno – apparentemente nascondendo una frase in codice – solo ad un debito di 12 ducati quale rimborso per un viaggio affrontato da quattro individui da Eboli a Potenza. Dalla perquisizione condotta sul corpo di Don Vincenzo fu rinvenuta solo una moneta da due franchi, immediatamente sequestrata dall’aiutante maggiore del 46° Fanteria. Condotto nelle carceri di San Francesco a Salerno, il povero Don Vincenzo attese pazientemente il processo, il quale si celebrò il successivo 1° dicembre 1864, appena terminate le indagini da parte dei Reali Carabinieri. Grazie a moltissimi testimoni forniti dalla difesa, compresi il sindaco di Castellabate ed altri signori del luogo, fu possibile provare che il Florio era da sempre stato di idee liberali, al punto che nell’agosto del 1860: <<…giunto il General Garibaldi in questa Provincia, esso Florio pregò il padre di lasciar andare i fratelli a combattere contro il Borbone, e siccome il padre se ne stava titubante, disse <<Se non lasciate andare i miei fratelli a combattere, mi svesto e vado io […]>>[3].
Non solo, ma durante il processo, la stessa bettoliera, Teresa Majorano, non riconobbe nel Florio il sacerdote accusato dai due militari, molto più alto e “rozzo” (come cita la sentenza), mentre altri testimoni dichiararono addirittura che nell’ora indicata dagli accusatori, il Florio si trovava in realtà nella bottega del pizzicagnolo Carruba e che di lì a poco, verso le ore nove, se ne era partito per altra direzione. A decidere per una sentenza assolutoria, pronunciata dal presidente del Tribunale Militare, Col. Alberto Radaelli lo stesso 1° dicembre 1864, intervennero anche i precedenti disciplinari dei due soldati, uno imputato di furto e l’altro di cattiva condotta durante il servizio militare sin lì prestato. Con molta probabilità si era trattato o di un errore di persona, frutto forse dei fumi dell’alcool, che aveva indotto il principale accusatore del sacerdote, il soldato Valentini a riconoscere nel Florio un prete reclutatore di briganti, ovvero della convinzione che il canonico della Colleggiata di Castellabate fosse in qualche modo imparentato col famigerato e sanguinario capo brigante lucano Egidio Florio, da poco evaso dalle carceri di Lagonegro.
Il brigante Florio non a caso operava in provincia di Potenza, località ove erano dirette le quattro persone partite da Eboli e per il cui viaggio il sacerdote di Castellabate chiedeva il rimborso delle spese[4]. Assolto dall’accusa infamante, il canonico Florio fece ritorno nella sua amata Castellabate, salutato con affetto da parenti ed amici. Ai due soldati, probabilmente mossi dalla speranza di una probabile promozione o di una ricompensa qualsiasi, piuttosto che dalla sete di giustizia, s’aprirono invece le porte del carcere militare. Fu, quindi, agli inizi del 1868, scosso da quanto gli era capitato, sfiduciato soprattutto per come il nuovo Stato unitario lo aveva trattato, nonostante i suoi nobili sentimenti, che Don Vincenzo Florio decise di partire alla volta del Rio Grande do Sul, assieme al fratello più piccolo, Don Gerardo, nato a Castellabate il 27 aprile 1829, anche lui Sacerdote, Don Vincenzo si sistemò inizialmente ad Arrojo Grande, uno dei Comuni più grandi dello Stato, ove fu Vice parroco dal 4 settembre dello stesso anno. Dopo aver svolto il suo ministero sacerdotale come Vice parroco in varie località ove maggiore era la presenza degli emigranti italiani, Don Vincenzo fu nominato, nel 1882, coadiutore della Cattedrale di Porto Alegre, la Capitale dello Stato federato del Rio Grande do Sul. In seguito fu anche parroco di Santo Amaro (da San Mauro Abate) e Triunfo, località fante parte della mesoregione metropolitana de Porto Alegre e della microregione di São Jerônimo, dal 1884 al 1889, mentre dal 1890 al 1892 fu, infine, parroco di Jaguarao. Ritornato a Castellabate nel corso del 1892, seguendo l’esempio del cugino Antonio, riprese il suo incarico di Canonico presso la Chiesa della Collegiata[5]. Mori a Castellabate il 6 febbraio del 1906.
Padre Gerardo Florio era stato nominato anche lui sacerdote presso la Badia di Cava, il 24 settembre del 1853. Giunto in Brasile, il 4 settembre del 1868 era divenuto parroco presso la Parrocchia di Nossa Senhora da Graça do Arroyo Grande, ove rimase sino al gennaio del 1873, data nella quale la lascio per curare le anime presso altri piccoli villaggi. Il 6 agosto del 1884, Don Gerardo giunse finalmente a Santo Angelo, un popoloso Comune della Regione del Missöes inquadrato oggi nella mesoregione del Roroeste Rio Grandese, peraltro capoluogo della medesima microregione. E fu proprio in questa località a Nord Ovest del Rio Grande do Sul che Don Gerardo Florio avrebbe incontrato la morte, venendo assassinato “in odium fidei” il 18 maggio 1886, a tre leghe da Sant’Angelo, mentre rientrava in sede dopo aver assolto ad una visita parrocchiale in un villaggio dell’interno, da due individui, molto probabilmente schiavi indios della zona[6]. Il sacrificio di Don Gerardo, documentato dal solo Arlindo Rubert è rimasto sconosciuto, almeno sino ad oggi, anche nella sua stessa Patria, Castellabate, ove all’epoca dei fatti non giunse mai alcuna comunicazione ufficiale dal Brasile, come ci ha confermato lo stesso Direttore dell’Archivio Storico Comunale, Emilio Guida, che ringraziamo, ancora una volta, per la sua sempre puntuale e importante collaborazione.
I tre Florio, veri precursori dell’emigrazione Cilentana in Brasile, non furono, tuttavia, gli unici sacerdoti di Castellabate che sfidarono l’Atlantico, andando a svolgere la propria missione nelle più sperdute aree rurali facenti parte delle altre Provincie, poi Stati, dell’Impero e della successiva Confederazione. Ve ne furono, infatti, molti altri che seguirono i nostri migranti anche dopo la proclamazione della Repubblica federativa (24 febbraio 1891) Presieduta dal Maresciallo Deodoro Da Fonseca, la cui Costituzione aveva fatto del Brasile uno Stato laico sul modello degli Stati Uniti d’America, Governo che – è doveroso ricordarlo – accordò la cittadinanza brasiliana agli immigranti europei arrivati fino a quella data, e la stessa deleteria insurrezione del Rio Grande do Sul, come avevamo prima ricordato. Fra questi ci piace citare, dovendo concludere questo modesto contributo, la nobile figura di Don Domenico Antonio Ippolito, nato a Castellabate il 12 novembre 1836, figlio di Giacomo, il quale visse lungamente nel Rio Grande do Sul, assistendo gli emigranti Cilentani e non solo loro, sino alla sua morte, avvenuta a San Gabriel il 20 settembre del 1900. Per una stranissima coincidenza, ciò avveniva esattamente nel trentesimo anniversario della liberazione di Roma, evento straordinario che nelle varie Colonie italiane stanziate nel grande Stato dell’America del Sud fu festeggiato in pompa magna, pur nel ricordo imperituro del loro amato Re, Umberto I, barbaramente assassinato a Monza il precedente 29 di luglio. Ma questa è un’altra storia…
Ten. Col. Gerardo Severino
Direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza
NOTA: si ringrazia il Sig.Emilio Guida, Direttore dell’Archivio Storico del Comune di Castellabate
[1] Cfr. Arlindo Rubert, Historia da Igreia no Rio Grande do Sul epoca imperial (1822 – 1889), Porto Alegre, Edipuces, 1998, pag. 32.
[2] Si andò anche oltre, disponendo, infatti, la secolarizzazione dei cimiteri, l’abolizione delle feste religiose ad eccezione della domenica e, infine, approvata una legge sui matrimoni civili ed una sul divorzio.
[3] Cfr. Archivio Centrale dello Stato, fondo Tribunali Militari, b. 192, fasc. 2310 (85) “Sentenza a carico di Florio D. Vincenzo, di Costabile, nato e domiciliato a Castellabate (Vallo), sacerdote di anni 36, favoreggiamento, 1° dicembre 1864”.
[4] Egidio Florio nacque a Castelsaraceno (PZ) il 26 marzo 1840. Datosi al brigantaggio subito dopo l’arrivo dei Garibaldini, imperversò in Basilicata e nel Principato Citeriore, rendendosi autore di efferati crimini. Arrestato e rinchiuso nelle carceri di Lagonegro, vi evase nel corso del 1863, ricostituendo la sua numerosa banda di briganti, molti dei quali erano appunto disertori del Regio Esercito o ex soldati borbonici. Costituitosi alla forza pubblica il 24 ottobre 1866 fu subito dopo condannato a morte.
[5] Cfr. Annuario Ecclesiastico 1898, Roma, Editore S. Silvestro in Capite, 1898, pag. 618.
[6] Cfr. Arlindo Rubert, op. cit., pag. 90.