Milite Ignoto, 100 anni di storia da ripercorrere
Il Sottotenente Antonio Bergamas di Gradisca d’Isonzo venne ufficialmente dichiarato disperso nel 1916 dopo che un violento tiro di artiglieria aveva investito in pieno il suo battaglione. Antonio si era arruolato nelle file italiane sotto falso nome essendo suddito austro-ungarico. Morì per l’Italia, con coraggio e sacrificio, come migliaia di giovani mobilitati per quella “inutile strage” che fu la Grande Guerra, come le defini Benedetto XV. Antonio non avrebbe potuto mai immaginare che la mano della sua adorata madre, Maria Bergamas, sarebbe stata quella che avrebbe scelto tra undici salme di altrettanti “soldati senza nome” quella destinata a partire da Aquileia per raggiungere Roma e diventare il simbolo del ricordo e della memoria degli oltre seicentomila giovani soldati caduti per la patria.
L’idea di rendere omaggio alla salma di un anonimo combattente caduto con le armi in pugno fu del Generale Giulio Douhet. Il relativo disegno di legge venne presentato alla Camera italiana nel 1921. Una volta approvata la legge, il Ministero della Guerra diede incarico ad una commissione di esplorare i luoghi nei quali si era combattuto, dal Carso agli Altipiani, dalle foci del Piave al Montello. Un’opera condotta in modo che fra i resti raccolti ve ne potessero anche essere di reparti di sbarco della Regia Marina. Quest’ultima aveva contribuito non poco alla vittoria finale, soprattutto sostenendo il morale dei soldati italiani che avevano perso la battaglia di Caporetto. Basti pensare alla storica impresa di Premuda per l’audacia dell’azione in mare, ma anche perché avvenne pochi giorni prima dell’offensiva italiana sul Piave del 15 giugno 1918. Nella notte del 10 giugno 1918 le due motosiluranti italiane MAS 15 e MAS 21, comandati da Luigi Rizzo e da Giuseppe Aonzo, fecero colare a picco la corqazzata austriaca Santo Stefano. L’unità stava procedendo a una velocità di 14 nodi e venne colpita a dritta da due siluri del MAS 15 lanciati da una distanza di 600 metri. Il MAS 15 oggi si trova al Sacrario delle bandiere, al Vittoriano di Roma. Luogo dove il 4 novembre 1921 fu meta di un viaggio compiuto sulla linea Aquileia-Venezia-Bologna-Firenze-Roma a lenta velocità per dare modo di onorare il caduto in ogni stazione.
Cento anni dopo, la Scuola Allievi Ufficiali dei Carabinieri di Roma accoglie il convegno di studi promosso dallo Stato Maggiore della Difesa in collaborazione con il Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti, le Università degli Studi di Ferrara, Padova, Pavia e Trieste sul tema Il Milite Ignoto: sacrificio del cittadino in armi per il bene superiore della Nazione. Quattro sessioni di studio e 25 interventi per ripercorrere un capitolo si storia partendo dal primo dopoguerra quanto “fra il 1919 e il 1920 il Paese fu percorso da una febbre rivoluzionaria che fece temere lo scoppio di una guerra civile – ricorda il Capitano di Vascello Michele Spezzano, Capo Ufficio Storico dello Stato Maggiore della Difesa, nel suo saluto introduttivo -. Poi dal 1921, iniziò l’ondata di riflusso, caratterizzata dal nascere della violenza fascista e da tentazioni sovvertitrici, come l’impresa dannunziana di Fiume”. Infine, stordita dalle divisioni politiche, dalla crisi economica e dai lutti, l’Italia sembrò acquietarsi ormai sfinita da tanto tormento. La crisi di Fiume fu risolta, l’inflazione tornò sotto controllo e la smobilitazione, del più grande esercito italiano di sempre, fu portata a termine – ha proseguito Spezzano -. La Nazione parve così ritrovare una sua unità e poté accingersi, il 4 novembre 1921, a dare solenne sepoltura in Roma alle spoglie del Soldato ignoto. Fu un enorme rito collettivo, che ancora oggi non ha eguali, con il quale il Paese sanciva, anche spiritualmente, l’uscita dalla stagione della guerra e l’ingresso in una nuova era di apparente concordia”.
Il Convegno ha analizzato proprio quell’appuntamento cruciale per la coscienza nazionale. Criticità, problematiche e aspetti che i numerosi studiosi, appartenenti al mondo militare e accademico, hanno cercato di focalizzare partendo da diversi quesiti: perché la Grande Guerra provocò tante vittime a differenza dei conflitti precedenti? Come era costituita la società italiana partita per il fronte? Quale fu l’attenzione sul culto dei Caduti in Italia? Quale elemento centrale dei riti laici delle nazioni uscite dalla guerra e come il Milite Ignoto viene oggi celebrato in alcuni paesi alleati?
Riflessioni, risposte e approfondimenti sono stati dati in modo dettagliato e originali dagli uffici storici delle Forze Armate che si sono soffermati sul cittadino soldato, su colui cioè che la guerra l’aveva combattuta provenendo dalla società civile. Nel corso del convegno si è parlato anche dei monumenti che conservano gelosamente le spoglie dei caduti, primo fra di essi il Complesso del Vittoriano.
“Questo centenario ci rammenta che la prosperità e libertà di cui oggi beneficiamo non sono stati un dono ma una conquista eroica e dolorosa e che il messaggio che ci lascia in eredità il Milite Ignoto è ancora vivo per noi e le future generazioni invitandoci a lottare coraggiosamente e generosamente per una società più giusta e sicura” ha concluso Spezzano prima di lasciare la parola al Commissario Generale per le Onoranze Caduti Generale di Divisione Gualtiero Mario De Cicco che ha sottolineato il grande impegno della struttura che guida sul fronte del recupero della memoria, ma anche della cura dei cimiteri di guerra, del recupero delle salme dei caduti e di altri importanti compiti
“Parlare di memoria collettiva, comprendere la nostra storia e conoscere le traiettorie del nostro passato, contribuisce a rafforzare quell’auspicata convergenza tra le articolazioni dello Stato e si pone a premessa di un sempre più deciso approccio multidisciplinare, fondamentale per identificare traiettorie di sviluppo condivise a garanzia di un futuro migliore per la nostra amata Italia – ha sottolineato il Generale di Squadra Aerea Enzo Vecciarelli, Capo di Stato Maggiore della Difesa – . Un Paese, il nostro ed è bene rammentarlo, che si fonda sul lavoro, riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, garantisce la pari dignità sociale e si riconosce nell’ideale comune dell’esempio, del servizio e del sacrificio”.
Vecciarelli ha evidenziato come un convegno del genere intende valorizzare proprio questi elementi, congiuntamente al valore della memoria. “La memoria: un culto del nostro passato migliore, forte di contenuti da alimentare continuamente e rispetto al quale noi tutti, come cittadini e come militari, abbiamo il dovere di essere all’altezza – ha sottolineato -. Un progetto rilevante, di elevata portata simbolica e sostanziale, capace di coinvolgere direttamente le fasce giovanili, che si ritrovano eredi di un passato impegnativo ma con la prospettiva di poter essere sicuri protagonisti del nostro futuro”.
Sulla scia di queste premesse Gastone Breccia, professore all’Università di Pavia, ha tenuto una prolusione partendo proprio da alcuni aspetti essenziali del periodo storico in cui maturò l’idea di ricordare i caduti del primo conflitto mondiale: “Storicamente, l’esigenza di tributare un omaggio ai soldati caduti e mai identificati ha radici lontanissime – ha avuto modo di spiegare – in fondo la restituzione del corpo di Ettore al padre è un modo per impedire che l’eroe troiano rimanga Missing in action, un disperso in combattimento, ma è diventata politicamente rilevante grazie a due fatti fondamentali: primo, l’affermarsi di eserciti composti da cittadini-soldati, soprattutto dalla rivoluzione americana in poi (soldati, dunque, che sono anche parte dell’opinione pubblica e del corpo elettorale, il cui valore come individui non può mai essere dimenticato da chi li manda a rischiare la vita per il bene comune); secondo, le caratteristiche della titanica “guerra d’attrito” industriale, che a partire dal 1914 ha iniziato letteralmente a disintegrare migliaia di corpi, cancellandoli dal campo di battaglia. L’omaggio postumo al soldato senza nome, inizialmente concepito come forma di consolazione per chi ne deve sopportare la perdita, diventa però un potente simbolo di coesione sociale e nazionale in un momento storico di grandi rivolgimenti politici – ha sottolineato -. Francia e impero britannico inaugurano i loro monumenti l’11 novembre 1920, l’Italia il 4 novembre 1921, gli Stati Uniti una settimana dopo: in un mondo sconvolto dagli effetti della Grande Guerra, richiamarsi al sacrificio “supremo” di chi ha dato la vita per dio, la patria e la famiglia – secondo la propaganda di tutti i belligeranti – assume un chiaro significato di riaffermazione e difesa di quei valori messi in pericolo da forze nuove”.
Per il Generale Ispettore Capo dell’Aeronautica Militare Basilio Di Martino, tra i più importanti storici militari a livello internazionale, “gli ultimi decenni del XIX Secolo e i primi anni del XX sono caratterizzati da una generale fiducia nei positivi sviluppi di un fenomeno che sembra inarrestabile, proiettando l’umanità verso traguardi insperati e inimmaginabili, quello di un progresso senza limiti”. Gli sviluppi in campo scientifico “si traducono nella disponibilità di tecnologie sempre più avanzate che modificano profondamente gli stili di vita delle popolazioni, soprattutto nelle nazioni più progredite, e significativi cambiamenti si hanno anche in ambito politico e sociale, con nuove soluzioni organizzative che vedono una presenza sempre maggiore dello Stato – ha avuto modo di dire Di Martino -. Una di queste è lo schema della leva obbligatoria, che nel coinvolgere tutta la popolazione maschile crea le premesse per la creazione di eserciti di massa armati ed equipaggiati con i mezzi messi a disposizione in grandi quantità da una industria dalle crescenti capacità produttive. La stessa scienza e la stessa tecnologia che avevano avuto il loro manifesto nel Ballo Excelsior, con le sue allegorie del progresso, sono il fondamento per la realizzazione di armamenti di una letalità senza precedenti, tali, insieme alla produzione di massa e alla coscrizione universale, da rendere obsoleti e inapplicabili gli schemi consolidati dall’esperienza delle guerre dell’Ottocento, e imporre la ricerca di nuove soluzioni. Lo scenario che l’effetto combinato delle nuove tecnologie e delle capacità organizzative dello Stato moderno, con i suoi apparati burocratici, non ha però chiavi di lettura immediate. Nel tentativo di trovarle, adattando tattiche e procedure per sfruttare le potenzialità delle nuove armi e superare uno stallo sanguinoso, le Nazioni consumano le loro energie in un conflitto che non sembra poter evitare la terribile logica del logoramento esemplificata dall’espressione “battaglie di materiali”, un’espressione che sottintende un costo altissimo in termini di vite umane facendo della Grande Guerra il
conflitto più sanguinoso della Storia e un’esperienza epocale destinata a imprimersi in modo indelebile nell’immaginario collettivo”.
Sul tema “Una società in guerra. Partire, combattere e morire nell’Italia del Primo conflitto mondiale” ha tracciato un lucido e preciso quadro del contesto storico, sociale e culturale degli anni a cavallo tra il 1914 e il 1918 Marco Mondini, professore associato al Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Padova dove insegna Storia contemporanea e History of Conflicts.
“Tra 1914 e 1918 l’intera società italiana fu mobilitata per la guerra. Il primo conflitto mondiale non era solo, in effetti, uno scontro industriale, che prevedeva l’investimento di ogni risorsa umana ed economica di un paese: era anche una guerra totale. Il che richiedeva la mobilitazione non solo della società maschile adulta, ma di pressoché ogni componente della popolazione, donne comprese – ha detto – . Tuttavia, a differenza di quanto sarebbe accaduto nel 1939-45, fu proprio la società maschile a pagare il prezzo più alto”. In questo senso, ha rilevato Mondini la Grande Guerra fu moderna e totale in termini contenuti. Il suo aspetto più tradizionale si tradusse soprattutto in termini di morte e distruzione: anche se le popolazioni civili delle terre invase in Belgio, in Italia, in Serbia e in Russia, non furono risparmiati dalla brutalità, la morte colpì soprattutto gli uomini in uniforme. Guerra di eserciti di massa e di coscrizione e guerra di logoramento, priva di grandi battaglie campali che potessero abbreviare il corso delle campagne, il 1914-1918 pretese un’“imposta del sangue” pesante in ogni paese coinvolto, in Italia anche più che altrove. In generale, e pur tenendo presente che i dati in nostro possesso sono e saranno per sempre inevitabilmente ambigui, la media dei caduti negli eserciti europei oscillò attorno al 7-10%. Nell’esercito operante italiano, questa percentuale sale al 13%, una stima che non rende giustizia, tuttavia, né all’impatto della guerra su alcune comunità regionali più colpite di altre né alla sperequazione tra segmenti generazionali. In Italia come altrove, il conflitto su anche un «sacrificio di Abramo», e le liste dei caduti accertati riflettono inevitabilmente un sacrificio che gravava soprattutto sul segmento giovane dei richiamati, destinati soprattutto ai reggimenti di fanteria di linea. Dei (forse) 600mila soldati morti durante il conflitto o per cause belliche, almeno 260mila non avevano oltre
25 anni. L’annientamento di una parte così rilevante della popolazione più giovane non poteva non avere un impatto psicologico profondo, come aveva intuito anche Sigmund Freud nelle
sue “Considerazioni sulla morte”. Il «peso dei morti», come l’ha battezzato Jay Winter, ha sottolineato Mondini, “rappresentò il lascito più immediato e più oneroso per ogni comunità coinvolta nel conflitto mondiale, e un debito che ogni Stato doveva pagare ai suoi cittadini superstiti. Debito materiale e soprattutto morale, che si tradussero nella necessità di organizzare rapidamente politiche della memoria che onorassero collettivamente i caduti, e nel bisogno spasmodico, e diffuso ovunque, di ricorrere al Milite Ignoto per rendere accettabile il cordoglio”.
Su “L’impegno delle donne: conquiste, sacrifici, disillusioni” è intervenuta la storica Anna Maria Isastia, già docente alla Sapienza Università di Roma: “Il protagonismo femminile durante gli anni della prima guerra mondiale, la presenza delle donne nelle fabbriche e il loro impegno nei lavori agricoli, così come le ricerche sulle impiegate o sulle tranviere sono frutto di studi e ricerche avviate negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso e implementate solo negli ultimi decenni. Eppure l’Ufficio storiografico della mobilitazione, creato in seno all’esercito durante il conflitto, era ben consapevole del peso delle donne che furono però estromesse dalla memoria della Grande Guerra che, a partire dagli anni Venti del Novecento, è stata narrata a lungo come guerra di soli uomini. I soldati e le donne furono i nuovi interpreti dell’Italia in armi e le indagini sulla mobilitazione femminile furono all’epoca considerate molto importanti in sé e per le ricadute “etiche e sociali”. Ci furono donne interventiste e pacifiste, donne che si trovarono in prima linea. Secondo alcuni storici nessun’altra guerra aveva richiesto un così
ampio contributo femminile in senso materiale e nessun’altra aveva investito tanto sulle valenze simboliche del femminile.
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