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I civili che furono schiavi di Hitler. Una storia da riscoprire

“Nei venti mesi dall’armistizio dell’8 settembre 1943 alla Liberazione e alla fine della guerra l’Italia, divisa in almeno due Italie e campo di battaglia per numerosi diversi eserciti, vive l’esperienza più tragica della sua storia unitaria – sottolinea Luciano Zani, ordinario di storia contemporanea alla Sapienza Università di Roma -. Un’esperienza di estrema complessità, dovuta all’accelerazione dei tempi della guerra e alla molteplicità dei poteri che convivono, si confrontano, si scontrano: la RSI del redivivo Mussolini, le diverse autorità del Reich in Italia, gli Alleati, il Regno del Sud, partigiani e resistenti di vario tipo. Poteri cui corrispondono forme molteplici e diversificate di vittime: deportati, internati, prigionieri, rastrellati, lavoratori coatti, ognuna di queste categoria suddivisa a seconda dei tempi, dei luoghi e dello spostamento del fronte da Sud a Nord, dalla linea Gustav alla linea Gotica”. Ognuna, aggiunge Zani “va studiata nella sua specificità, indipendentemente dall’entità numerica, perché solo così possiamo provare a ricostruire la storia di quel periodo breve, ma tormentato e pieno di ferite, di traumi e di scelte che avranno gran peso nella storia successiva dell’Italia”. Perciò, ribadisce Zani “dopo aver valorizzato per molti anni la memoria degli Internati Militari Italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre, l’Anrp si è impegnata in un’altra pista di ricerca, apparentemente meno di massa ma altrettanto rilevante per la sua incidenza sul popolo italiano: i civili utilizzati come manodopera, in Italia e nel Reich”, volontari “camerati del lavoro”, reclutati in vario modo, rastrellati e costretti a lavorare come “schiavi di Hitler”. Il Convegno del 15 dicembre è una tappa rilevante di questo percorso di ricerca. Sarà presente Nicola Mattoscio, Presidente dell’Anrp, l’Associazione reduci dalla prigionia, dall’internamento, dalla guerra di Liberazione e loro familiari.

La giornata di studi, dedicata ad Enzo Collotti (1929-2021), rappresenta la conclusione della seconda fase del progetto di ricerca, finanziato dal Fondo italotedesco per il futuro, sul tema dell’impiego di manodopera italiana in Germania prima nel quadro dell’alleanza tra fascismo e nazionalsocialismo, poi nel contesto dell’occupazione successiva all’8 settembre 1943.
Se la prima fase, sostenuta dalla Fondazione “Memoria della Deportazione”, aveva puntato a costruire un quadro storiografico delle vicende intercorse nel periodo 1943-1945, concretizzandosi nella pubblicazione, sostenuta dall’ANRP, del volume Tante braccia per il Reich! Il reclutamento di manodopera nell’Italia occupata 1943-1945 per l’economia di guerra della Germania nazionalsocialista (Milano, Mursia, 2019), la seconda fase, che si chiude ora, ha permesso, grazie all’impegno costante dell’ANRP e del suo Presidente emerito, Enzo Orlanducci, sia di approfondire le dinamiche territoriali attraverso monografie in corso di stampa nella collana “Guerre e dopoguerra”, presso l’editore Novalogos, e di aprire canteri di ricerca negli archivi regionali tedeschi, sia di costruire strumenti di divulgazione on line, in un’ottica di public history, quali il portale prosopografico Lavorare per il Reich (con allo stato 16.000 schede biografiche, cifra
che salirà nei prossimi mesi a 34.000) e la mostra multimediale Tante braccia per il Reich, la cui consultazione pubblica si aprirà contestualmente al convegno.
Il convegno, che ha avuto il patrocinio dell’Istituto Nazionale “Ferruccio Parri”, della Fondazione “Memoria della Deportazione” (Milano), della Società Italiana per lo studio della storia contemporanea dell’area di lingua tedesca (SISCALT), del Deutsches Historisches Institut in Rom (DHI), si svolgerà in modalità duale (in presenza e da remoto) e potrà essere seguito via zoom al link: https://us02web.zoom.us/j/88294850372

Per capire il fenomeno dei lavoratori civili presi prigionieri dal regime di Hitler occorre andare all’arco di tempo tra il 1938 ed il 1945 e a un milione e 200mila storie che fanno parte di un’unica storia, ma anche e soprattutto alla storia della relazione tra Italia fascista e Germania nazionalsocialista, con l’Italia prima alleata e poi occupata. “Tante storie, tra loro però assai diverse, talvolta in modo abissale” sottolinea lo storico dell’Università di Calabria Brunello Mantelli, che insieme a Giovanna D’Amico e Irene Guerrini ha curato il volume “Lavorare per il reich” edito da Novalogos. “Nella prima fase, 1938-1942, lo spostamento di braccia italiane oltre Brennero avvenne all’interno di un’alleanza: l’emigrazione fu organizzata tramite trattati tra Roma e Berlino – aggiunge Mantelli -. La Germania aveva bisogno di braccia, l’Italia ne aveva in eccesso e non riusciva ad occuparle. Non era facile però per il regime fascista giustificare la ripresa dell’emigrazione all’estero” dopo anni  passati a denigrare “l’italietta liberale e giolittiana” che aveva favorito i flussi migratori, allora bisognava travestire le partenze come espressione di “solidarietà assiale”, all’interno cioè dell’asse tra il primo fascismo, quello di Mussolini, ed il più importante e forte dei suoi imitatori, il nazismo di Hitler”. In questa fase gli emigrati possono mandare denaro a casa, e quindi parecchie migliaia di famiglie (complessivamente lavoratori e lavoratrici nel Reich arrivano a 500.000) campano con il denaro che arriva da oltre Brennero.
“La seconda fase, non poco diversa, va dal 1943 al 1945” spiega Mantelli. Dopo l’8 settembre 1943 l’Italia diventa un “alleato occupato”, ma la Germania continua, dato il prolungarsi della guerra, ad aver molta fame di braccia. Oltre a trattenere nei propri confini almeno 100.000 dei lavoratori italiani che vi erano giunti prima della crisi dell’estate 1943, Berlino si affretta ad utilizzare come manodopera la grande maggioranza degli IMI, cioè i militari italiani fatti prigionieri dalla Wehrmacht subito dopo l’8 settembre. 650.000. Soldati e sottufficiali vengono buttati subito a lavorare, con gli ufficiali i tempi son più lenti, finché nell’agosto 1944 gli IMI sono trasformati d’ufficio in “lavoratori civili”. Dopo l’8 settembre 1943 le porte dei KL, i campi di concentramento, si aprono anche per gli italiani: ci finiscono 23.826 deportati in quanto considerati oppositori (la maggioranza a Dachau e Mauthausen) e 8709 ebrei (questi ultimi pressoché tutti ad Auschwitz). Anche il sistema dei KL era stato da tempo (1942) asservito alla produzione di guerra: i “politici” e quegli ebrei che non vengono uccisi subito al loro arrivo ad Auschwitz vengono utilizzati come lavoratori schiavi, in condizioni inenarrabili.

Nell’Italia occupata e sottoposta, tranne le due zone di operazioni (Prealpi = OZAV e Litorale Adriatico = OZAK) controllate direttamente dall’occupante, all’autorità del governo collaborazionista di Salò riprende il reclutamento di braccia, con metodi via via più brutali, ivi compreso l’uso di rastrellamenti e retate in cui si uniscono il bisogno di controllare il territorio, la volontà di combattere le insorgenze partigiane, la necessità di reperire a tutti i costi manodopera. Con la tolleranza, in questo come negli altri casi, degli organi della Republica sociale italiana si prelevano dalle carceri detenuti anche comuni, trasferiti in Germania ed utilizzati in parte significativa nell’industria chimica; tra loro il tasso di mortalità sarà assai alto.

Ma perché la manodopera italiana è così importante per l’economia di guerra tedesca? “È importante in due fasi e per diversi motivi: nella prima fase (1938-1941/42) perché l’Italia è il principale alleato della Germania, e perciò i suoi lavoratori sono considerati utilizzabili in tutte le produzioni di carattere militare, in molte delle quali invece non vengono impiegati, dopo il 1939, né prigionieri di guerra, né civili arruolati nei territori occupati come Polonia, Francia, Danimarca e Norvegia, Jugoslavia e Grecia – aggiunge Mantelli -. Alla fine del 1940 Berlino chiede infatti una grande massa di operai industriali (250.000) a Roma in previsione dell’attacco all’URSS (22 giugno 1941), dovendo mobilitare circa 3 milioni di giovani maschi per la Wehrmacht, molti dei quali tolti dalle fabbriche”.

In seguito, dato che l’URSS non crolla e la guerra si prolunga, dal 1942 si recuperano braccia senza più precauzioni in tutti i territori occupati, specie dell’URSS. Si crea l’autorità per la gestione della manodopera, e il sistema dei KL (campi di concentramento) viene asservito alla produzione. Quindi l’Italia come riserva di manodopera perde tra 1942 e 1943 peso. L’Italia torna ad essere importante alla fine del 1943: il fronte orientale sta retrocedendo, la possibilità di arruolare forzatamente all’Est diminuisce, nell’estate del 1944 poi la Francia sarebbe stata liberata. Restava
pressoché solo l’Italia occupata come territorio da saccheggiare di braccia, maschili e femminili. E se ne prelevano altre 100.000, in tutto.

Vincenzo Grienti

Per saperne di più

https://www.lavorareperilreich.it/

www.lessicobiograficoimi.it

www.tantebracciaperilreich.eu.