4 dicembre 1975: muore Hannah Arendt
Nel 1971 il “New York Times” pubblica alcuni stralci del Pentagon Papers, documenti segreti del Dipartimento della difesa relativi all’impegno americano nel sud-est asiatico dal Dopoguerra agli anni Settanta. Lo scandalo al cuore di quella pubblicazione, che precedette il più famoso Watergate che coinvolse il Presidente USA Richard Nixon, riguardava l’ammissione da parte degli esperti del Pentagono dell’assoluta inutilità strategica dell’impegno americano in Vietnam. Un’ammissione, ormai nota da anni ai più, dalla quale Hannah Arendt partì per scrivere un saggio, poco conosciuto, ma intenso e ricco di riflessioni dal titolo “La menzogna politica”. Un libro da leggere per riscoprire, nel giorno in cui si fa memoria di questa grande scrittrice e pensatrice, autrice di libri come “La banalità del male”, “Le origini del totalitarismo”, “Sulla rivoluzione”, la personalità e l’elevatura culturale. Hannah Arendt in questo saggio uscito nel 1972, tre anni prima della sua morte, prende in esame le affinità e le differenze fra la menzogna tradizionale, cioè il “mentire per ragion di Stato” e la deliberata falsificazione dei fatti per ragioni di “immagine” o di “reputazione”. Ben oltre una mera ricognizione sui metodi pubblicitari, manipolatori del consenso e della pubblica opinione, all’opera nelle moderne democrazie di massa.
Hannah Arendt è stata una filosofa, storica e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense. La privazione dei diritti civili e la persecuzione subìte in Germania a partire dal 1933 a causa delle sue origini ebraiche, unitamente alla sua breve carcerazione, contribuirono a far maturare in lei la decisione di emigrare. Il regime nazista le ritirò la cittadinanza nel 1937 e rimase quindi apolide fino al 1951, anno in cui ottenne la cittadinanza statunitense.
Lavorò come giornalista e docente di scuola superiore e pubblicò opere importanti di filosofia politica. Rifiutò sempre di essere categorizzata come filosofa, preferì che la sua opera fosse descritta come teoria politica invece che come filosofia politica.
La Arendt difese il concetto di «pluralismo» in ambito politico. Grazie al pluralismo, il potenziale per la libertà politica e l’uguaglianza tra le persone si sviluppano. Importante è la prospettiva di inclusione dell’altro, ovvero di ciò che ci è estraneo. Politicamente, le convenzioni e le leggi dovrebbero funzionare per modalità pratiche e livelli appropriati, quindi tra persone ben disposte. Come risultato dei suoi assunti, la Arendt si trovò contro la democrazia rappresentativa, che criticò fortemente, preferendole un sistema basato sui consigli o forme di democrazia diretta.
Spesso tuttavia viene studiata come filosofa, a causa delle sue analisi critiche su filosofi come Socrate, Platone, Aristotele, Immanuel Kant, Martin Heidegger e Karl Jaspers, insieme ai maggiori rappresentanti della filosofia politica moderna come Machiavelli e Montesquieu. Principalmente grazie al suo pensiero indipendente, alla teoria del totalitarismo (Theorie der totalen Herrschaft), ai suoi lavori sulla filosofia esistenziale e alla sua rivendicazione della discussione politica libera, la Arendt detiene un posto centrale nei dibattiti contemporanei.
Come fonti delle sue disquisizioni utilizza, oltre che documenti filosofici, politici e storici, anche biografie e opere letterarie. Questi testi vengono interpretati letteralmente e in rapporto con il suo pensiero personale. Il suo sistema di analisi – influenzato da Heidegger – contribuisce a renderla una pensatrice originale, trasversale ai diversi campi del sapere e specialità accademiche.
Giulio Marsili