La battaglia di Gela del 1943. Reportage nei luoghi dello sbarco degli Alleati in Sicilia
Una storia nella storia quella dello sbarco degli Alleati in Sicilia che condusse alla liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Un racconto in cui si intrecciano decisioni politiche, eventi bellici e vicende umane dentro quel dramma che porta con se ogni tipo di guerra. Testimoni del tempo a distanza di 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale non sono solo gli anziani che hanno vissuto la guerra, ma anche i luoghi e le pietre come quelle con cui sono stati costruiti bunker, casematte e pillbox ancora oggi visibili all’occhio del viaggiatore che attraversa la Sicilia orientale. Il nostro reportage storico inizia dal lembo più a sud est della penisola. Un viaggio a ritroso nel tempo alla scoperta dei posti dello sbarco degli Alleati del 10 luglio 1943. In queste spiagge, in queste coste gli americani della 45ª divisione di Fanteria della 7ª armata comandata dal generale George Patton sbarcarono intorno alle ore 3:45 su un fronte di 17 chilometri tra Punta Zafaglione e Punta Braccetto mentre la 1ª e la 3ª Divisione occupavano il tratto di spiaggia compreso tra Gela e Licata. Le zone di sbarco erano due: quella di competenza della 7ª Armata americana da Licata a Scoglitti, lunga un’ottantina di chilometri nell’ampia curva naturale che compone il Golfo di Gela, e quella dell’8ª armata britannica guidata dal generale Bernard Law Montgomery attestato sulla fascia costiera tra il Golfo di Noto, Pachino e a ovest Portopalo di Capo Passero (Punta Castelluzzo) lungo una zona di circa 50 chilometri. Dopo mesi e mesi di studi strategici e tattici il piano dello sbarco e le conseguenti manovre offensive elaborate dal generale Harold Alexander, al quale venne affidato il comando delle forze terrestri fu attuato. La direzione delle operazioni era stata affidata al generale Dwight David Eisenhower mentre il comando delle forze navali in mano all’ammiraglio inglese Andrew Browne Cunningham, già protagonista della battaglia navale di capo Matapan il 28 marzo 1941. Le forze aeree furono invece guidate dal maresciallo dell’aria Arthur Tedder.
Lo sbarco degli Alleati in Sicilia ancora oggi vivo nei ricordi della popolazione locale, dei tanti anziani che hanno vissuto la tragedia del secondo conflitto mondiale. Tra questi molte donne siciliane che all’epoca erano rimaste sole perché i loro mariti erano partiti per la guerra.
“Nei giorni precedenti lo sbarco degli americani passavano nel cielo aerei che facevano scendere giù volantini in cui si diceva di allontanarsi dagli obiettivi militari – ricorda Agnese Modica, classe 1920 e lucidissima a 94 anni di età -. Poi nei giorni successivi avvenne lo sbarco. Dal balcone di casa mia in località Renna, frazione di Noto, il mare in lontananza sembrava popolato da mosche. Invece erano uomini e barche che si muovevano velocemente per raggiungere la riva. Erano migliaia e noi donne rimaste sole perché i nostri mariti erano partiti per la guerra ci preoccupammo per quello che sarebbe accaduto. Per noi, per i nostri mariti, per i nostri figli. La guerra è la cosa più brutta che un essere umano possa fare e possa vivere. Non la auguro a nessuno. Quel luglio 1943 – ricorda nonna Agnese – rimasi stretta alla mia mula e al gatto che avevamo in casa fino a quando i soldati americani non aprirono la porta, entrarono e si misero a cercare. Non so cosa, ma svuotarono i sacchi di farina, aprirono tutte le stanze, tutte le porte e le porticine, i bauli e i cassetti. Poi se ne andarono”. Oggi percorrendo le dissestate strade provinciali della Sicilia orientale sono le casematte e i piccoli bunker del diametro circolare di circa 20 metri quadrati che fanno memoria di quella operazioneaeronavale denominata in codice Husky, come il cane da slitta siberiano. Questo evento, così come lo sbarco in Normandia, segnò una svolta nel secondo conflitto mondiale e l’inizio della fine del regime fascista. Di lì a poco infatti, come scrivono Giuseppe Casarrubea e Mario Ciro José Cereghino nel libro Operazione Husky. Guerra psicologica e intelligence nei documenti segreti inglesi e americani sullo sbarco in Sicilia (Castelvecchi RX, Roma 2013), “il Gran Consiglio voterà la sfiducia a Mussolini e il re ne ordinerà l’arresto. La campagna militare alleata andrà avanti per altri due anni trasformando l’Italia in un campo di battaglia tra gli eserciti di mezzo mondo, fino alla Liberazione”. Un periodo tra i più drammatici della storia del Novecento di cui i “fortini” in cemento della debole linea di difesa costiera dei soldati dell’Asse in Sicilia orientale restano una traccia indelebile. Da questi pillbox, così come li chiamavano inglesi e statunitensi, i soldati italiani si trovarono a fronteggiare le Forze Alleate che per l’attacco in Sicilia disponevano di oltre 490mila uomini tra britannici e americani, più di 2.500 aerei e oltre 3mila navi. A questi si aggiungevano più di 600 carri armati e 14mila veicoli mentre i pezzi di artiglieria e i cannoni si attestavano a circa 2mila. Dalla parte opposta gli italiani schierati in difesa dell’isola guidati dal generale Alfredo Guzzoni si attestavano a quasi 200mila uomini. Di questi più di 30mila erano militari tedeschi, compresa la Divisione panzer “Herman Goering”, tristemente nota in seguito per la strage di Stazzema, in Toscana nel 1944. Dopo lo sbarco degli Alleati le forze dell’Asse furono sostenute da altri rinforzi attestandosi a circa 320mila uomini. In Sicilia i corpi d’armata italiani erano due: il XII comandato dal generale Mario Arisio, di stanza a Corleone, che agiva sul versante occidentale dell’isola, da Licata a Cefalù, e il XVI guidato dal generale Carlo Rossi, che aveva il suo quadro comando posizionato a Piazza Armerina, per controllare la zona orientale sicula da est di Cefalù a Gela. La Sicilia, di suo, era una fortezza naturale. L’orogenesi siciliana era molto favorevole al quadro difensivo, ma sul campo di battaglia gli italiani erano nettamente inferiori come tipologia di armi rispetto ai ben equipaggiati anglo-americani. Basti pensare che il miglior cannone italiano era il 149/35 ad affusto rigido che sparava fino a 10 chilometri contro i 30-40 chilometri dei grossi calibri navali degli Alleati. Per quanto riguarda l’equipaggiamento individuale gli italiani possedevano un fucile a ripetizione ordinaria modello 91 di fine Ottocento, mitragliatrice Breda da 8mm e mortai da 81mm. Certo tra gli italiani non mancarono episodi e azioni da manuale che ancora oggi vengono studiate nelle scuole di guerra statunitensi. Si pensi alle imprese della Divisione “Livorno” che per ben due giorni “tenne a bada” proprio dai bunker situati su Monte dell’Apa e Monte Zai gli anglo-americani difendendo a oltranza le proprie posizioni.
“Questa tipologia di bunker fu realizzata per resistere ai piccoli e medi calibri – spiega Salvatore Reale, cultore di storia militare e membro dell’Associazione Lamba Doria – e furono costruiti in calcestruzzo con uno spessore minimo di 60 cm. Le tre feritoie di cui ciascuno è composto furono realizzate per garantire una copertura di fuoco che copriva circa i 270 gradi di visuale, in zone pianeggianti i 360 gradi”. Nelle foto scattate da Salvatore Leone si possono vedere quelli di media grandezza rispetto alle tre tipologie esistenti in loco con postazioni circolari mono-arma armate principalmente da una mitragliatrice che si trovano su Monte Zai e Monte dell’Apa. Sono quelle della foto 1 dove, in primo piano, si vede la classica casamatta con feritoie a tramoggia, cioè a svasare verso l’esterno e che in teoria avrebbero dovuto riparare i difensori dai rimbalzi delle schegge, mentre nella foto 4 e 5 su Monte dell’Apa si scorge l’osservatorio, utile a tenere sotto monitoraggio continuo l’intera area. “La particolarità di quest’ultimo – aggiunge Reale – è quella di avere feritoie lisce ed annesso ricovero situato nella zona posteriore da cui si accedeva allo stesso”. Come si evince dalle fotografie i bunker situati su Monte Zai presentano danneggiamenti compiuti dal fuoco dell’artiglieria americana e, secondo Reale “forse anche da qualche carro armato” , dato che dalle ricerche e dalle letture sull’argomento che egli ha effettuato in questi anni risultano essere stati impiegati il 12 luglio anche una colonna di 5 carri armati. “Il Caposaldo fu difeso dall’11a Compagnia del III° Battaglione del 33° Reggimento Fanteria della 4ª Divisione Livorno e da qualche reparto costiero col compito di resistere ad oltranza il 12 luglio per consentire ai resti della Divisione di arretrare verso Butera, Mazzarino ed il Bivio Gigliotto dove ci fu un altra dura battaglia” sottolinea ancora Salvatore Reale. A qualche chilometro di distanza, invece, sul Ponte Dirillo si trovano ancora oggi delle postazioni circolari chiamate in gergo “in barbetta” e, al tempo dello sbarco degli Alleati, armate da varie armi a seconda del diametro. “Anche se meno protette delle postazioni a cupola, le barbette con i ricoveri erano più facili da riprodurre in serie e si potevano facilmente mascherare all’osservazione aerea nemica – aggiunge Reale -. Il termine barbetta deriva dalla barba che fa al parapetto la vampata di fuoco che fuoriesce dall’arma posizionata ad alzo zero”. Per Salvatore Reale, così come per gli altri cultori e appassionati di storia militare moderna quella di far conoscere questi bunker è “una passione che nasce non per esaltare gli eroismi dei soldati italiani in Sicilia nel lontano luglio 1943, ma per fare comprendere in quali condizioni si trovarono a combattere su Monte dell’Apa e sul Monte Zai i nostri militari, forti di una inferiorità spaventosa nei confronti degli americani ed anche degli alleati tedeschi. Eppure, nella piana di Gela, ebbero il coraggio di avanzare coi moschetti e qualche mitragliatrice contro il fuoco navale, aereo e di artiglieria campale. Ricordarli – aggiunge Reale – è un modo per fare memoria di questi caduti e di rendere loro un po’ di giustizia. I bunker e le casematte, oggi, sono un museo a cielo aperto. Sarebbe davvero interessante con l’aiuto delle istituzioni locali e della scuola permettere alle giovani generazioni la visita di questi luoghi della memoria per far capire loro quanto sia tragica e disumana la guerra e quanto invece l’umanità dagli errori del passato possa costruire un futuro di pace”. In questi luoghi si registrarono le imprese della Divisione “Livorno”, che per ben due giorni dal 10 al 12 luglio del 1943 resistette alle forze Alleate tra Monte Zai e Monte dell’Apa. Fu la dimostrazione che quella degli anglo-americani non è stata propriamente, come viene spesso descritta una passeggiata. “Il contrattacco italiano su Gela dell’11 luglio 1943 – prosegue Reale – iniziò dalle basi di partenza sulle quali si attestarono il 10 luglio i reparti della Divisione Livorno e cioè l’ampia zona che da Monte Falcone, situato nei pressi della Stazione di Butera, proseguiva per i Monti dell’Apa e Zai per terminare sul Monte Castelluccio”. Al riguardo un libro molto interessante da leggere sulla sanguinosa battaglia che avvenne tra la sera del 9 e la mattina del 14 luglio 1943 nel triangolo Ponte Dirillo-Vittoria-Santo Pietro di Caltagirone, con epicentro la cittadina di Acate, chiamata fino al 1938 Biscari, è Obiettivo Biscari. 9-14 luglio 1943: dal Ponte Dirillo all’Aeroporto 504 (Ugo Mursia Editore, Milano 2013). I due autori Domenico Anfora e Stefano Pepi ripercorrono i sei giorni di guerra che infuocarono il territorio siciliano da Gela a Vittoria e descrivano minuziosamente attraverso la ricerca di documenti inediti trovati negli archivi dei Comuni interessati dallo sbarco o negli archivi americani, ma anche raccogliendo interviste sul campo e testimonianze di chi ha vissuto in prima persona quegli avvenimenti. Una pubblicazione che approfondisce con fotografie e schede in un’ampia e articolata appendice il contesto storico dello sbarco, i protagonisti e le forze in campo. Da un lato i paracadutisti All American, i fanti statunitensi della Big Red One e della Thunderbird; dall’altro i granatieri corazzati della Divisione “Hermann Goering”, i reparti costieri italiani della XVIII brigata. Ma soprattutto i due autori grazie a documenti e testimonianze dirette dei sopravvissuti narrano delle stragi dell’aeroporto di Biscari e di Comiso, la strage di Vittoria in cui persero la vita il podestà di Acate e i suoi congiunti, la battaglia dell’altura Biazzo in cui un gruppo di paracadutisti americani ricacciò indietro un’intera colonna della divisione “Goering”, la battaglia per l’aeroporto di Biscari in cui si consumò la nota strage di prigionieri italo-tedeschi. Al rientro dalla piana di Gela si entra nel territorio ibleo. Anche qui sono ben visibili lungo la strade extraurbane che collegano Modica a Pozzallo, Sampieri a Scicli, Donnalucata a Ragusa questi monumenti silenziosi che, nascosti tra gli alberi di carrubo e di ulivo, ricordano che la Seconda guerra mondiale e la fine del conflittofu decisa anche e soprattutto nella Sicilia orientale sia per l’Operazione Husky ma anche per il successivo armistizio firmato a Cassibile, in provincia di Siracusa. Qui le casematte e i bunker sono cimeli a cielo aperto che riportano alla memoria i tristi giorni in cui tantissime famiglie siciliane con commozione e preoccupazione, da questo lembo di terra videro partire e morire tanti giovani per la guerra voluta da Mussolini.