19 aprile 1943. Auschwitz: per non dimenticare
Al campo di concentramento di Auschwitz si accede per una porta sovrastata dalla cinica scritta «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi. Da qui iniziava per i deportati il viaggio verso l’orrore, troppe volte senza ritorno. Oggi Oswiecim, l’allora Auschwitz I, e Brzezinka, quella che era Auschwitz II-Birkenau, è tutto un museo a cielo aperto. I monumenti dell’industria della morte organizzata sono ancora qui, intatti, a testimonianza di una tragedia, di un crimine contro l’umanità intera. Qui hanno perso la vita Massimiliano Kolbe e Edith Stein. Con loro anche milioni di persone.
Questo luogo dal 1940 al 1945 incuteva terrore tra le popolazioni dei paesi occupati dal regime nazista durante la Seconda guerra mondiale. La prima cosa che viene in mente entrando per la prima volta nel campo di sterminio tedesco è il passo della Divina commedia sulla porta dell’inferno: “lasciate ogni speranza voi che entrate”. Quello che più di ogni altra cosa fa rimanere impietriti migliaia di visitatori da tutto il mondo è il modo in cui si organizzava l’orrore. C’è smarrimento e sconcerto davanti ai posti dove avveniva la smaterializzazione di migliaia di vite umane, senza nessun motivo o solo perché erano ebrei. Auschwitz-Birkenau incute gelo e desolazione, ma anche una grandissima malinconia e commozione, soprattutto visitando le baracche dove cercavano di sopravvivere i deportati, oppure quella strada ferrata senza ritorno che termina in una piazzola dove gli ufficiali e i medici delle SS separavano il destino di chi avrebbe lavorato da quello di chi era destinato alle camere a gas. Impossibile per qualunque visitatore non chiedersi: come possono gli uomini concepire una simile malvagità ai danni di altri uomini? Come hanno potuto i nazisti essere tutti convinti che questo era giusto? Uomini, donne, bambini privati della loro dignità, mutilati, bruciati, resi oggetto di una grande catena di montaggio che aveva come fase finale la cremazione dei loro corpi.
«La dottoressa Stein pregava molto – affermava nel 2005 Elisabeth Krämer, allieva della santa ai tempi dell’insegnamento presso l’istituto magistrale di Speyer –. La mattina, in occasione della Santa Messa, aveva un posto tutto suo nel coro della Chiesa. C’era un inginocchiatoio vicino alla porta della sagrestia: si inginocchiava lì. Ma non solo durante la Messa, anche in altri momenti veniva spesso lì per fare l’adorazione. Persino di notte si tratteneva spesso a fare l’adorazione davanti al Santissimo. Una chiave della Chiesa era a sua disposizione in un posto concordato. Le sue lezioni erano impegnative, e pretendeva molto anche da noi. Non era una semplice trasmissione di sapere: portava nell’aula con sé anche la sua profonda fede in Cristo».
Per suor Teresa Margareta Drügemüller, che era novizia quando la Stein entrò nel Carmelo di Colonia: «Teresa Benedetta era consapevole, sebbene con la massima modestia, dell’essere prescelta come figlia d’Israele. Rallegrava conoscerla così perché era completamente di Dio e allo stesso tempo figlia del popolo eletto di Dio. Era ebrea, ma sottolineava sempre, “ebrea tedesca”, così come amava definirsi la sua famiglia. Questa consapevolezza conferiva a suor Teresa Benedetta un grande carisma». Edith Stein, figlia del popolo di Israele ed ebrea tedesca, era nata nel giorno dello Jom Kippur, dell’espiazione e del perdono del popolo di Dio. «Questa grande donna – prosegue suor Teresia Margareta Drügemüller – potrebbe essere il punto di riconciliazione tra ebrei e cristiani, perché entrambi riconoscano congiuntamente di essere figli di un unico Padre celeste, e di vivere del Suo amore e della Sua benedizione».
Nell’anniversario della liberazione del campo di concentramento nazista di Auschwitz, avvenuto il 12 gennaio 1945, ricordare più di 1.100.000 uomini, donne e bambini che hanno perso la vita in questo campo di sterminio non è solo doveroso ma fondamentale affinché simili fabbriche della morte non vedano più sostenitori.