Capire i conflitti per costruire la pace
Dalla storia antica a quella contemporanea il mondo ha avuto periodi di pace e di guerra che si sono inseriti nelle vite delle persone provocando tragedie umane e drammi umanitari. I conflitti sono spesso sfociati anche in svolte epocali che hanno condotto Stati e nazioni a periodi di democrazia. Capire e studiare le guerre del passato resta fondamentale per costruire un futuro di pace. Così un libro come “La grande storia della guerra. Uomini, Stati e imperi in lotta” (Newton Compton) può fornire una lettura utile alla comprensione di fatti, vicende e situazioni a volte poco conosciuti. Al riguardo Giorni di Storia ha intervistato Gastone Breccia, autore del libro, che dal 2000 insegna Storia bizantina e Storia militare antica presso l’Università degli Studi di Pavia.
Professore, oggi più che mai capire le guerre nella storia e l’evoluzione dei conflitti resta fondamentale per il futuro di Stati, specialmente nella maggior parte delle democrazie occidentali che hanno inserito nelle loro carte costituzionali principi come la pace e la fratellanza tra i popoli. Perché allora le guerre sono sempre dietro l’uscio e minacciano la sicurezza delle nazioni?
Capire la guerra è fondamentale per gettare le fondamenta di una pace stabile. Lo ricordo nel mio saggio: la pace è un patto (il sostantivo latino pax, pac-s, ha la stessa radice di pac-tum), ovvero è un accordo, non una condizione naturale; naturale, per le comunità umane, è entrare in conflitto con altre comunità per conquistare e sfruttare risorse sempre e comunque limitate. Dunque comprendere cause e sviluppo dei conflitti serve per valutare con realismo le possibilità e i vantaggi di soluzioni differenti, «patteggiate»: la cosa che può aiutare di più a tenere lontana la guerra è la consapevolezza dei rischi che comporta. Le guerre sono sempre incombenti per molti motivi – religiosi, culturali, economici – ma temo lo saranno in futuro soprattutto per la disponibilità limitata di risorse essenziali: la crisi climatica globale sta già rendendo drammatica la situazione di centinaia di milioni di abitanti del nostro pianeta, e dunque è più probabile il verificarsi di situazioni di conflitto violento. L’inserimento di principi di pace e fratellanza nelle carte costituzionali di molti Stati sovrani è poi certamente lodevole, e non può che essere considerato un progresso della civiltà: a patto però che non si trasformi in una delega ipocrita ad altri di responsabilità dolorose.
È ancora valida la massima si vis pacem para bellum oppure oggi nell’era della cyberwar e dell’economic warfare è tutto cambiato?
La massima latina è più che mai valida. Nella cyberwar bisogna giocare d’anticipo, per così dire: essere un passo più avanti dell’avversario, possibilmente senza che l’avversario stesso se ne renda conto. Soltanto in questo modo si possono evitare danni irreparabili al proprio sistema economico e militare, e persino al normale scorrere della vita civile (attacchi cibernetici possono mandare in crisi il sistema dei trasporti, o il sistema sanitario di un’intera società sviluppata). Quindi sì: è più che mai valida la massima latina e credo in questo stesso momento sia messa in pratica in decine di laboratori e centri di studio in tutto il mondo… Il discorso è simile per quello che riguarda la guerra economica: anche in questo caso, visto che lo sviluppo di prodotti «vincenti» sui mercati e la creazione e il mantenimento di rotte commerciali proficue sono l’effetto di politiche di lungo termine e di ampio respiro, è fondamentale prepararsi per tempo con tutti i mezzi al confronto anche ostile con i propri avversari.
Nel suo libro sulla storia della guerra si parte da lontano, dai conflitti nell’antico Egitto fino ad arrivare ai giorni nostri. Partiamo dal presupposto che tutte le guerre possono essere evitate e che molto dipende dai governanti: quale conflitto secondo lei poteva essere evitato più degli altri?
In questo caso la risposta è (o sembra) facile: poteva essere evitata la Grande Guerra, l’«inutile strage» per antonomasia. Nel 1914 l’Europa dominava il mondo e molto probabilmente avrebbe potuto risolvere in maniera pacifica le proprie rivalità interne. Esisteva un sistema di relazioni internazionali ben collaudato, una diplomazia esperta che aveva le capacità e i mezzi per scongiurare il conflitto. Eppure non è accaduto, e la splendida Europa della belle époque è andata con entusiasmo verso la propria rovina. Questo ci impone di prendere coscienza di un aspetto terribile della storia: le guerre non sono soltanto un fatto razionale, sempre causate da interessi economici o politici. Altrimenti molte, se non tutte, potrebbero essere evitate. Purtroppo sono legate invece a qualcosa di più profondo, a pulsioni culturali in senso ampio, a meccanismi della psicologia di massa che sono difficili da contrastare. Lo dico in maniera brutale: all’uomo, in una certa misura, la guerra piace, se ne sente attratto. Per questo la fa così spesso.
Cento anni fa, al termine della Prima Guerra Mondiale, il mondo piombò nell’incubo dell’epidemia della spagnola. Nel 2020 non siamo usciti da un conflitto mondiale, ma ci troviamo alle prese con l’emergenza sanitaria per via del Coronavirus. Ci sono secondo lei delle analogie con il 1918? Oggi non usciamo da un conflitto su vasta scala, ma in varie parti del globo ci sono conflitti localizzati e altrettanto pericolosi per la stabilità degli equilibri mondiali.
Per quello che riguarda la pandemia di «spagnola» – che iniziò a diffondersi nella primavera del 1918, quindi durante la Prima Guerra Mondiale, aiutata non poco dai movimenti di masse di uomini in armi e dalle condizioni di vita nei campi militari e nelle trincee – per fortuna le analogie sono limitate: il virus è dello stesso tipo, ma oggi disponiamo di difese mediche ben più solide, e quindi i suoi effetti sono certamente dolorosi ma non catastrofici (la «spagnola», va ricordato, fece almeno 50 milioni di morti). È giusto però riflettere sul ruolo dei molti conflitti limitati che insanguinano il mondo nel 2020: il «disordine globale» seguito agli attentati del 2001 e all’esito fallimentare delle guerre americane in Iraq e Afghanistan non è certamente amico della pace. Oggi la prospettiva di un conflitto «convenzionale» su vasta scala sembra piuttosto remota, anche per l’enorme potere distruttivo delle armi a disposizione dei possibili avversari (USA e Cina in primis), ma nuove forme di guerra – proxy wars, o «guerre per procura» localizzate ma feroci, offensive terroristiche su vasta scala, cyberwar – non mancheranno certo di caratterizzare la vita delle prossime generazioni.