Fiamme Gialle, il dramma della deportazione nei lager tedeschi
Mentre sul contributo offerto dalle Fiamme Gialle alla Resistenza e alla Guerra di Liberazione si è scritto molto, sia all’indomani del 25 aprile 1945, sia successivamente, grazie ai tanti libri, ai saggi ma soprattutto agli articoli che alcuni militari del Corpo firmarono e pubblicarono sulla rivista “Il Finanziere”, scarsamente è stato raccontato, invece, il dramma della deportazione nei lager tedeschi, fenomeno registratosi già all’indomani della proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e perdurato anche nei durissimi mesi che ne seguirono, man mano che si delineava la concreta partecipazione di migliaia di Finanzieri alla stessa Resistenza. Eppure il dato statistico, che prudenzialmente parla di circa 5.000 militari, sarebbe sufficiente da solo per dimostrare quanto sia stato effettivamente drammatico quel periodo per l’allora Regia Guardia di Finanza, antico Corpo di polizia italiano che proprio quel necessario armistizio aveva letteralmente spezzato in due, con una componente operante nel centro-sud Italia, facente capo al “Comando Generale della Regia Guardia di Finanza dell’Italia Liberata”, inizialmente con sede a Bari e poi a Salerno, ed una “Guardia Repubblicana di Finanza” con sede in Brescia, agli ordini della sedicente Repubblica Sociale italiana, altrimenti nota col titolo di “Repubblica di Salò”. La deportazione dei Finanzieri nei lager tedeschi passò attraverso vari momenti. Ai rastrellamenti operati subito dopo la proclamazione dell’armistizio, fase, questa, che interessò gran parte dei militari facenti parte dei Battaglioni mobilitati operanti nei Balcani, quelli operanti lungo la frontiera orientale, così come nell’alta Italia e in Francia, seguì, poi, la cattura e la deportazione di centinaia e centinaia di Fiamme Gialle che si erano, nel frattempo, compromessi con il movimento Resistenziale, ai quali fu però negata la qualifica di “I.M.I.” (internati militari italiani), essendo considerati deportati per motivi politici e, di conseguenza, trattati molto peggio, come ricorderò a breve.
I Finanzieri deportati è probabile che siano stati molti di più rispetto ai 5.000 di cui abbiamo contezza a livello documentale, e ciò per via del fatto che alla data dell’8 settembre ’43 migliaia di altre Fiamme Gialle si trovavano mobilitate provenendo, però, dalle categorie in congedo. Il fenomeno interessò tutte e tre le categorie, quindi ufficiali, sottufficiali e truppa. Si trattava di militari “richiamati in servizio” da parte dei vari Centri di Mobilitazione, ovvero dagli stessi Comandi di Legione ove tali categorie erano ascritte nella c.d. “Forza in Congedo”. Ebbene, mentre per gli ufficiali è stato più semplice comporre la statistica, essendo presente nell’archivio del Museo Storico del Corpo il c.d. “Fondo Epurazione”, contenente gli atti di tutti gli ufficiali in servizio alla data dell’8 settembre ’43, è pressoché impossibile assicurare la stessa operazione di ricerca riguardo alle altre due categorie di personale, i cui atti sono tutt’oggi conservati presso i vari Reparti Tecnico Logistici del Corpo sparsi praticamente in tutta Italia, ma archiviati per anno di congedo. Va da sé, quindi, come il numero dei Finanzieri deportati possa essere di gran lunga maggiore rispetto ai citati 5.000, tenendo presente il fatto che i tedeschi continuarono ad arrestare e deportare in Germania sia civili che militari, praticamente quasi fino alla primavera del ’45. Quel periodo appartiene alla seconda fase della deportazione, quando cioè le responsabilità di moltissimi militari del Corpo nei riguardi delle varie organizzazioni resistenziali li inchiodarono irreparabilmente. Al di là delle esecuzioni sommarie, spesso eseguite nelle piazze italiane, ma anche lungo i confini con la Svizzera – ricordiamo, ad esempio, l’eroico Finanziere Salvatore Corrias, Medaglia d’Oro al Merito Civile e “Giusto tra le Nazioni”, fucilato sul Monte Bisbino il 27 gennaio 1945 – molti Finanzieri furono catturati, processati sommariamente e spediti nei numerosi lager tedeschi, da Fossoli, Bolzano e Trieste ma soprattutto in quelli stanziati nella più vicina Austria, a differenza di quanto era accaduto tra il settembre ’43 e la primavera del ’44, epoca nella quale molti treni lasciarono l’Italia dirigendosi direttamente in Germania. Quella della deportazione fu, quindi, una condizione inconsapevolmente scelta da gran parte dei Finanzieri che ne fu coinvolta e ciò per il semplice fatto di aver saputo scegliere da che parte stare.
E fu, quella, una scelta che operarono anche gli stessi “I.M.I.” in Fiamme Gialle, i quali non accettarono, per la straordinaria maggioranza dei casi, le lusinghe tedesche e della fantomatica Repubblica Sociale italiana, che offrirono loro la libertà pur di combattere al loro fianco. Mesi e mesi di durissima detenzione ne fiaccò tanti, ma la quasi totalità decise di rimane a soffrire a migliaia di chilometri di distanza. Altri, invece, più astutamente tornarono in Italia, per poi darsi alla macchia e passare, quindi, alla Resistenza. Quella che secondo molti fu una vera e propria “Guerra Civile”, consentì di appoggiare la poderosa campagna militare che le Armate Anglo-Americane – successivamente coadiuvate in qualità di “cobelligeranti” da truppe scelte del Regio Esercito italiano, dell’Arma dei Carabinieri e della Regia Guardia di Finanza – fecero partire dalla Sicilia e che portò alla definitiva sconfitta di quelle “Potenze dell’Asse” che tanti lutti, disastri e perdite avevano procurato al nostro popolo. Ai partigiani italiani, e fra di loro centinaia di Finanzieri, va attribuito il merito di aver cacciato per sempre dal suolo italiano l’odiato esercito occupante: lo stesso che fra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 si macchiò di indicibili nefandezze, anche contro l’inerme popolazione civile, spesso coadiuvato dalle famigerate e italianissime “Brigate Nere”, ovvero dalle odiate Polizie speciali della Repubblica Sociale Italiana. Molti Finanzieri patrioti pagarono con la loro stessa vita l’aver scelto da che parte stare dopo l’8 settembre 1943. Subirono, quindi, le torture e le angherie nei vari lager, pagando così sia per la propria sete di libertà, sia per il fatto di aver generosamente offerto il proprio aiuto a migliaia di ebrei e di perseguitati dai nazi-fascisti che dal settembre ’43 alla primavera del ’45 tentarono la fuga nella vicina Svizzera. Il Maresciallo Maggiore Luigi Cortile, l’Appuntato Domenico Amato, i Finanzieri Tullo Centurioni, Claudio Sacchelli e Giovanni Gavino Tolis, tutti decorati di Medaglia d’Oro al Merito Civile, “passarono per i camini” dei lager di Mauthausen, Gusen e di Melk (Austria) proprio a causa di tale generosità. Altri come loro furono, invece, più fortunati, riuscendo a tornare alle proprie famiglie, alle quali, tuttavia, non raccontarono mai nulla di quanto gli fosse successo.
Le storie di questi uomini sono “riaffiorate” purtroppo solo molti anni dopo la loro stessa scomparsa, anche grazie all’istituzione, nel 2000, del “Giorno della Memoria” delle Vittime della Shoah e della persecuzione nazifascista. Qualche anno dopo, volendo rimanere nel campo degli aiuti ai profughi ebrei e ai perseguitati in generale, grazie alle ricerche compiute dal c.d. “Nucleo di Ricerca” voluto dall’allora Comandante Generale della Guardia di Finanza, Generale C.A. Roberto Speciale, Nucleo che ho ancora oggi l’onore di dirigere, fu possibile far conferire alla Bandiera di Guerra della nostra Istituzione la Medaglia d’Oro al Merito Civile, importantissima decorazione che seguì di diversi anni quella d’Oro al Valor Militare che ci fu conferita per il prezioso contributo offerto, invece, alla Resistenza.
Un grandissimo merito per aver mantenuto accesa la fiammella del ricordo va, in verità, rivolto a due importanti storici del Corpo, i compianti Generali Giuliano Oliva e Pierpaolo Meccariello, che tale contributo ebbero modo di analizzare compiutamente, regalandoci due veri e propri capolavori editoriali, che purtroppo, però, essendo stati stampati dal Corpo stesso, non ebbero la possibilità di poter essere diffusi al “grande pubblico”. Mi riferisco ai libri «La Guardia di Finanza nella Resistenza e per la Liberazione», che il Generale Oliva pubblicò nel 1985 e «La Guardia di Finanza nella Resistenza», che invece il Generale Meccariello pubblicò nel 2005, in occasione di un interessantissimo convegno istituzionale che si tenne a Milano in occasione del 25 aprile di quell’anno. Le migliaia di Fiamme Gialle che subirono il dramma della deportazione in Austria e Germania furono oggetto delle più barbare vendette che un uomo potesse, allora come oggi, concepire e immaginare. Dai verbali di interrogatorio rilasciati al momento del rientro in Patria, molti Finanzieri scampati ai campi raccontarono per filo e per segno ciò che avevano dovuto subire, dalle marce forzate al lavoro nelle miniere, nelle cave di pietra e nelle fabbriche di armi, per non parlare degli esperimenti sul proprio corpo. Alcuni di loro (come Luigi Bernardi, Mino Petruzzelli e Antonio Girardi) firmarono anche alcuni articoli, pubblicati fra il ’45 e il ’47 dall’allora “Monitore del Finanziere”, contributi connotati da elevato spessore umano, prim’ancora che di quell’innato desiderio di far conoscere al mondo intero un aspetto della barbarie nazista. Si tratta, molto spesso, di testimonianze crude, ma utili per comprendere anche la differenza sostanziale che divise gli “I.M.I.” dai detenuti politici, ovvero dai condannati per fatti resistenziali, contro i quali le forme di violenza furono peggiori e nefaste. Ricordo per tutti l’orribile fine che toccò al povero Finanziere Giovanni Gavino Tolis, originario di Chiaramonti (Sassari), morto il 28 dicembre ’44 nel sotto campo di Gusen (Mauthausen) dopo aver subito per mesi e mesi le più crudeli sevizie, compresa l’immersione nelle acque gelide di una piscina in pieno inverno. La sua colpa? Quella di aver favorito la fuga in Svizzera, nei pressi di Ponte Chiasso, di centinaia di ebrei. A testimoniare ciò fu il suo stesso Comandante, l’eroico Maresciallo Maggiore Paolo Boetti, anche lui Medaglia d’Oro al Merito Civile, che riuscì per fortuna a tornare in Italia, riabbracciando così la moglie e le sue due bambine in tenera età, sotto i cui occhi era stato arrestato un anno prima. Ci sono stati, poi, uomini coraggiosi che di tale ricordo ne hanno fatto un “impegno sociale”, tanto da decidere di raccontare a tutti la propria terribile esperienza, e mi riferisco al compianto Brigadiere Evandro Parete, che sino all’ultimo istante di vita andò in giro per piazze e scuole, fornendo ogni minimo particolare del suo durissimo internamento, peraltro vittima degli esperimenti del Mengele di turno, in quel di Dachau. Dagli interrogatori dei Finanzieri deportati emerge, talvolta, anche la generosità dei popoli austriaco e tedesco, dimostrata talvolta nel salvare, nelle proprie case, quei pochi fortunati che erano riusciti a fuggire dai lager, ovvero che erano stati costretti al lavoro coatto nelle numerose fattorie, come accadde all’allora Sottotenente del VI Battaglione Mobilitato, Michele Tito, che nel 1948 conquisterà la prima medaglia olimpica delle Fiamme Gialle.
Il 9 settembre del 1943, il Tito, che prestava servizio presso il Presidio di Sienica, si trovava in viaggio sul treno Trieste – Lubiana. Catturato nei pressi del confine croato-tedesco, fu internato nel campo di concentramento XVII/A di Kaisersterinbruck, nei pressi di Wiener Neustadt (Austria), prima tappa di altre atroci esperienze. Nei mesi seguenti, infatti, l’ufficiale delle Fiamme Gialle fu trasferito nel campo di Przemysl, in Polonia, successivamente in quello di Deblin, a sud di Varsavia e, poi, presso il lager di Sandbostel x^/B, tra Brema ed Amburgo, in Bassa Sassonia, dove rimase fino al gennaio del 1945, data nella quale il campo fu chiuso. Trasferito presso il campo di Wietzendorf 83, presso Amburgo. Qui, il 24 febbraio fu prescelto per il lavoro coatto ed inviato presso una fattoria del circondario di Friesland, a circa 20 chilometri da Wilhelmshaven, sempre nella Bassa Sassonia. Nella fattoria tedesca, il Tito si rifiutò di fare il contadino coatto, trovando per sua fortuna delle persone generose che lo assecondarono. Nella sua relazione, l’ufficiale scrisse, riferendosi alle organizzazioni che gestivano il lavoro coatto che questi: <<…proibirono soltanto alla famiglia che mi ospitava di darmi da mangiare finché non mi fossi deciso a lavorare, proibizione però che non fu rispettata>>. Il Sottotenente Tito fu, quindi, veramente ospite della generosa famiglia tedesca, della quale, purtroppo, non cita il nome, sino al 5 maggio 1945, data nella quale la zona fu liberata dalle truppe Canadesi. Nella speranza di poter presto ricostruire più dettagliatamente queste bellissime vicende, rendiamo gloria a quegli ignoti benefattori che rischiarono la fucilazione pur di salvare non poche vite umane. Non è compito di questo contributo descrivere ulteriormente quanto accadde nei lager tedeschi, anche perché sia la letteratura che la cinematografia ci hanno agevolato il compito, soprattutto in questi ultimi decenni. Possiamo solo aggiungere che le migliaia di Fiamme Gialle che ebbero la sventura di portare sulla propria pelle i segni delle torture degli aguzzini tedeschi non sono mai state dimenticate dal proprio Corpo d’appartenenza. Il 30 settembre del 2011, in una bellissima mattinata di sole, nel settore italiano del lager di Mauthausen l’allora Comandante Generale del Corpo, Generale di Corpo d’Armata Nino Di Paolo inaugurò un cippo in ricordo dei tanti Finanzieri che dai campi di sterminio voluti da Hitler non era tornati. Sono trascorsi dieci anni da quella toccante cerimonia, ma il ricordo di quanti soffrirono per il solo fatto di essere italiani e per aver voluto onorare fino all’ultimo respiro l’amato Tricolore non si è mai affievolito, rinvigorendosi ogni anno in occasione del “Giorno della Memoria”, che il Corpo celebra con commozione, sia a livello centrale che periferico. Concludo questa lunga testimonianza con la speranza che il tributo di sangue e valore espresso dalle migliaia di Fiamme Gialle che ebbero a soffrire il dramma della deportazione serva da monito al Paese intero, ma soprattutto alle future generazioni di Finanzieri, nella piena consapevolezza che, al di là dei numeri statistici, anche i Finanzieri seppero dimostrare, in quel triste periodo per il mondo intero, di essere “italiani fra gli italiani”, “soldati fra i soldati”, “vittime tra le vittime”, affrontando con coraggio il proprio destino, e sempre nel ricordo di quella Patria comune per la quale soffrirono e spesso s’immolarono.
*Ten. Col. Gerardo Severino
Direttore del Museo Storico della Guardia di Finanza