Docu-film di guerra Il primo lungometraggio della Regia Marina
All’inizio della Seconda guerra mondiale il Comitato per il cinema politico e di guerra presieduto da Alessandro Pavolini, giornalista e politico, ma soprattutto ministro per la cultura popolare dal 1939 al 1943, approvò un piano di realizzazione di sette documentari spettacolari aventi come soggetto la guerra. Nel piano rientravano pellicole cinematografiche girate nei diversi fronti di guerra come la Russia e l’Africa settentrionale. I protagonisti erano il Regio Esercito, la Regia Marina e la Regia Aeronautica impiegati nei diversi scenari strategici. I film navali vennero presi in carico dal Ministero della Marina che li affidò a Francesco De Robertis. A lui fu affidato il coordinamento del Centro cinematografico della Regia Marina appositamente istituito. Il suo primo film d’esordio fu Uomini sul fondo del 1941 in cui egli curava non solo la regia, ma anche la sceneggiatura e il montaggio.
L’idea che ruota attorno al soggetto della pellicola nacque da un fatto realmente accaduto: alla vigilia della Seconda guerra mondiale, durante le manovre di esercitazione il sommergibile A103, in fase di emersione, entra in collisione con il piroscafo Ariel, costretto a cambiare rotta per evitare un banco di nebbia. L’impatto produce uno squarcio nella fiancata del sottomarino che affonda. Fallisce il tentativo di far ripartire il sommergibile in quanto incagliato sul fondale. Utilizzando il cilindro di salvataggio alcuni uomini riescono a risalire in superficie e a segnalare la posizione esatta. Accorrono le navi di salvataggio Titano e Ciclope, il pontone di sollevamento Anteo e due idrovolanti. Dopo alcune ore gran parte dell’equipaggio è stata tratta in salvo. Il comando militare prepara un piano per pompare aria nella parte allagata del sommergibile in modo da far uscire l’acqua che lo appesantisce e provare a disincagliarlo. Il comandante e i sette marinai Lanciani, Vennarini, Nelli, Ciacci, Leandri, Villosio e Giuma, nonostante la pressione atmosferica e il livello di anidride carbonica abbiano raggiunto livelli quasi insopportabili, decidono di rimanere a bordo per cercare di salvare l’imbarcazione. I palombari riescono a saldare lo squarcio, ma non riescono ad aprire la valvola per pompare aria all’interno. Si potrebbe tentare di aprirla dall’interno, ma il locale idrovore è completamente invaso dal cloro e l’impresa sembra impossibile. Il marinaio Leandri decide di sua iniziativa di tentare. Riesce ad aprire la valvola e a far passare l’aria, ma la sua mano rimane bloccata sotto la leva e l’uomo muore intossicato dai fumi. Il suo sacrificio consente però al sommergibile di disincagliarsi e ripartire. Una volta emerso il sommergibile viene salutato festosamente, ma subito cala il silenzio quando la bandiera viene issata a mezz’asta per onorare lo spontaneo atto di eroismo del marinaio Leandri.
Sulla sceneggiatura non mancò lo scetticismo e il controllo della casa di produzione e di distribuziione Scalera Film, attiva dal 1938 al 1950, che nel periodo 1940-1943 divenne la casa cinematografica nazionale con il maggior numero di pellicole prodotte. Quest’ultima mandò il regista e sceneggiatore Ivo Perilli a verificare quel che stava bollendo dietro la macchina da presa di De Robertis. In realta il regista esordiente dimostrò di conoscere bene i meccanismi di scrittura e le tecniche di racconto. Ad esempio De Robertis, nel film Uomini sul fondo inserisce degli elementi narrativi all’inizio della storia per poi riprenderli a metà racconto o, addirittura, alla fine, ossia quello che viene definito set-up e pay-off o molto semplicemente “semina” e “raccolta” come ad esempio l’indizio della mano del marinaio posto all’inizio e ripreso alla fine dà il senso e il significato della storia, ma mette in evidenza la sensibilità di De Robertis nella cura dei particolari.
A Uomini sul fondo collaborò anche il regista Giorgio Bianchi, indicato nei titoli di coda come direttore artistico, che senza dubbio diede un contributo non indifferente a De Robertis, così come il giovane Mario Bava, allora operatore, ma in futuro destinato ad essere annoverato tra i più grandi registi di cinema horror.
Quando il film uscì fu considerata un’opera di grande fattura e di consistenza artistica. Sia sul piano del ritmo che su quello della fotografia venne accolta con pareri favorevoli dalla critica cinematografica del tempo che riconobbero al regista De Robertis di essere stato capace di tenere alto il livello di drammaticità della pellicola dall’inizio alla fine del lungometraggio. Il film trovò però maggiore appeal per la sua caratteristica di essere anticipatore del neorealismo, non solo per il taglio documentaristico-romanzato della narrazione, ma anche e soprattutto per l’impiego di attori non professionisti. Basta guardare l’inizio del film in cui il regista apre con una carrellata sui marinai dell’equipaggio impegnati nella vita ordinaria che solitamente viene condotta a bordo di una unità navale: il cuoco che cuoce la pasta, chi si spazzola la divisa per la franchigia, chi gioca a dama aspettando di montare di guardia in porto o chi addirittura fa la “settimana enigmistica”. Questo per far aderire ancora di più il pubblico alla narrazione, per farlo sentire vicino ai protagonisti del film che potrebbero essere i propri figli, nipoti o amici. La pellicola, a parere di molti critici cinematografici, prima di essere una storia di guerra è una storia umana, di persone impegnate a rendere un servizio allo Stato, all’Italia. Gli interpreti recitano in maniera spontanea, naturale, sono insomma gli ufficiali, i sottufficiali e l’equipaggio di un sommergibile italiano che ha già partecipato a vari episodi della Seconda guerra mondiale.
Il primo lungometraggio d’ambiente marinaro appave subito come un’autentica rivelazione non solo per il già citato taglio documentaristico del racconto, ma anche per le tecniche, considerate ai tempi molto avanzate. E poi per l’illustrazione, fotogramma per fotogramma, di uomini, ambienti e situazioni che nel Dopoguerra aiutarono il film a guadagnarsi l’appellativo di “pellicola verista” che rinunciava alla retorica militare. In più, molti critici paragonarono il film di De Robertis, per l’uso espressivo del montaggio, a quelli del cinema sovietico muto e del documentarismo inglese degli anni Trenta.
Il film, oggi, occorre inquadrarlo in un genere di guerra molto particolare: esso ha un impianto sobrio e allo stesso tempo rigoroso nei dettagli quando descrive l’ambiente circostante e anche per questo fu accolto con calore dalla critica ufficiale che lo definì “capolavoro di arte cinematografica” e lo pose insieme a L’assedio dell’Alcázar di Augusto Genina tra i principali film della produzione italiana del 1940. Si tratta infatti di una storia di guerra, ma la guerra non è rappresentata, resta insomma sullo sfondo. Non c’è l’esaltazione delle imprese militari – forse perché non si volevano innestare ulteriori ansie e preoccupazioni nell’opinione pubblica – e questa chiave porterà il film di De Robertis ad avvicinarsi al pubblico, alle vicende umane di tutti i giorni. Sono i personaggi che attirano la curiosità e l’interesse dello spettatore nei ruoli che il regista gli fa interpretare: c’è il marinaio che mangia sempre, quello impavido che non ha paura, il cinico, c’è chi soffre di solitudine e si isola dall’equipaggio e c’è poi la figura punto di riferimento del comandante dello scafo che rappresenta quasi “il buon padre di famiglia”, amorevole e autorevole allo stesso tempo; da un lato preoccupato per i propri uomini e preso dal senso di responsabilità, dall’altro freddo e autoritario ogni qualvolta debbono essere prese delle decisioni attinenti al comando del sommergibile.
Uomini sul fondo è una pellicola che mette bene in evidenza, senza dubbio influenzata dalla politica del tempo, l’importanza dello spirito di corpo e del grande ruolo che la componente maschile, su cui facevano leva le nostre forze armate, Regia Marina compresa, si faceva carico della communitas, dunque dell’Italia intera, nel tentativo di difendere la patria e nel frattempo di vincere la guerra. Tutti elementi legati alla propaganda fascista che pian piano vennero a decadere per le condizioni socio-economiche e per l’evolversi del secondo conflitto mondiale, come ben sappiamo, non a favore dell’Italia fascista. Nel Dopoguerra questo modello “maschile” e virile, ben rappresentato da De Robertis nel film, sarà superato. Le sceneggiature e i film degli anni Cinquanta e Sessanta rappresenteranno sempre più soggetti e protagonisti femminili non in attesa come le madri, le mogli e le fidanzate tenute sullo sfondo, a casa, dagli sceneggiatori delle pellicole prodotte nel periodo fascista, ma le donne avranno un ruolo più attivo, quasi da affiancamento, se non addirittura da traino, in molti film anche di guerra.