IMI, di questa eredità che ne abbiamo fatto?
1943 è l’appendice che nostro padre si è portata dietro da quando, giovane maestro laureato e innamorato, ha visto la SFASCIO del REGIME e lo SBANDO del Regio Esercito dopo l’8 settembre. Fu l’anno della SCELTA e delle successive durissime altre SCELTE quotidiane durante la Sua prigionia da IMI (Internati Militari Italiani) in Germania. Fino alle estreme e pericolose conseguenze finendo, come primo gruppo di ufficiali internati italiani, nel KZ di UNTERLUSS nel dicembre del 1944.
I militari IMI, prima del ritorno, ricostruiscono le loro vicende di prigionia, cercano le testimonianze reciproche delle loro sofferenze….e questo lo fanno inoltrando al Comando Militare Italiano dell’Oflag. Quest’ultimo, da prigioniero, riprende improvvisamente le sue funzioni di comando e raccoglie i “curriculum delle disgrazie” dei superstiti.
Non è una mania di papà ma una esigenza collettiva di legittimazione: si torna a casa, sono ufficiali, “superstiti internati resistenti”, a rivestire un ruolo nella nuova Italia devastata dal fascismo. Sperano infatti di avere acquisito un credito in più e diverso rispetto ai “collaboratori”, di prepararsi e candidarsi a rappresentare la nuova Italia. Fra loro ci sono medici, ingegneri, diplomati, avvocati, insegnanti, impiegati che aspirano, oltre a ritornare fra le braccia dei cari, a posti e a ruoli nella nuova classe dirigente o, semplicemente, poter accreditarsi per svolgere il proprio lavoro al ritorno in patria . La loro “resistenza”, diversa da quella della “resistenza armata” della guerra di liberazione, li ha temprati: mentre chi ha scelto la via armata l’ha deciso in poco tempo, molte volte improvvisamente per necessità, per ideale, per ideologia, gli italiani dei lager, prigionieri per non aver accettato di collaborare o lavorare per i tedeschi, hanno maturato le loro scelte ogni giorno per mesi, per quasi due lunghi anni, soggetti ogni giorno al ricatto della fame, del freddo, del lavoro forzato.
Difficile dire quanto potrebbe resistere un uomo a questa persecuzione, a questa lusinga quotidiana, una situazione che ti prospetta sempre la via d’uscita di cui non vuoi approfittare. Non solo, vedendo anche lo stillicidio dei compagni esausti che cedono e si arrendono a collaborare.
Arrivare a casa e trovare ai posti di comando e burocrazia, oltre ai meritevoli che hanno combattuto, buona parte degli imboscati, degli opportunisti, degli (ex)-fascisti, degli optanti fu un fatto reale. Si ripeteva un po’ quanto era successo ai reduci della prima guerra mondiale. Le persone vogliono dimenticare in fretta le tragedie.
Grande rilievo riveste nelle coscienze di questi uomini, specie ufficiali, l’aver giurato fedeltà alla patria incarnata dal Re, e ai propri soldati a partire dal momento dell’armistizio. L’8 settembre fu una data drammatica: dover scegliere su due piedi da che parte stare. Per uomini abituati da tre lustri a non prendere decisioni, perchè già prese sistematicamente dal regime, fu un passo difficile e pieno di incognite. L’opportunismo fu padrone assoluto pur di portare a casa la pelle, la coerenza fu padrona assoluta nel dettare alla coscienza come comportarsi, la confusione fu padrona assoluta del caos. Per gli ufficiali, in particolare, passare al lavoro voleva dire rinunciare ai gradi e ritornare “civile”.
Il ritorno è amaro anche dal punto di vista economico:“.da quando son partito rispetto a quando son tornato, dirò che, grosso modo, per comprare qualcosa che valeva 100 L. nel 1940 nel 1943 occorrevano 200 L., nel 1944 1000 L. e nel 1945 2000 L.
I miei, nostri, pochi risparmi sono andati in fumo, senza contare che la mia remunerazione da ufficiale era cessata.
L’Italia che ho trovato così a fine agosto del 1945 era tuttavia quella dei progetti di vita che Franca mi aveva già chiaramente elencato nella lettera del 20/08/45 “Adesso però c’è molto da lavorare, adesso bisogna ricostruire, noi dobbiamo pensare a questa nostra Italia per essa si deve lavorare.” Era il programma che, per la nostra parte, ci attendeva.
Di questa eredità che ne abbiamo fatto?
Paolo Mello Rella