La notte in cui Josif Stalin morì nel racconto di Nikita Kruscev
Il dittatore era riverso sul pavimento, in una “dacia” fortificata a 84 chilometri da Mosca. Sette uomini lo videro e tacquero per tre giorni prima di dare la notizia al popolo sovietico. Cosi’ l’incipit del sommario a pagina 28 di Epoca del 7 aprile 1963. Il settimanale pubblicava l’intervista di Georges Kessel a Nikita Kruscev, a capo del soviet Supremo, che raccontava la morte di Joseph Stalin. La grande fotografia in bianco e nero della salma esposta nella “sala delle colonne” del Palazzo Sindacale a Roma immortalando per sempre colui che fece entrare l’Urss nella Seconda guerra mondiale fermando l’avanzata delle truppe nazi-fasciste fece il giro del mondo.
Sulla morte di Joseph Vissarionovich Giugascvili detto Stalin non mancarono dubbi e perplessita’ in piena Guerra fredda. Secondo i comunicati ufficiali Stalin era morto al Cremlino il 5 marzo 1953. Ma il “giallo” iniziava proprio li. Infatti, vi erano stati tre comunicati ufficiali: il primo in data 2 marzo del 1953 annunciava:”Nella notte dall’1 al 2 Stalin e’ stato colpito da emorragia cerebrale”. Il secondo, diramato l’indomani, precisava:”Stalin soffre di disturbi respiratori che, a tratti, assumono un carattere preoccupante”. Infine il terzo, datato 5 marzo, concludeva:”Il suo stato si e’ aggravato nel pomeriggio di oggi e alle 21.30 Stalin e’ deceduto”. Dunque uno scarto tra versione ufficiale e verita’ storica? Forse si. Forse questo scarto potrebbe essere quantificato, secondo quanto emerge dall’inchiesta di Georges Kessel, proprio di tre giorhi e 84 chilometri.
La verita’ su come andarono i fatti la lascio’ trapelare proprio Nikita Kruscev nel decimo anniversario dalla morte di Stalin. Come mai questa decisione? Come mai, si chiede lo stesso reporter che firma l’articolo per il settimanale diretto da Nando Sampietro, Kruscev vuole togliersi “il bue dalla lingua”? Lo si deve al suo carattere loquace oppure al suo bisogno di liberarsi da un peso troppo pesante? Andiamo per gradi. Cio’ che avvenne nel marzo del 1953 Kruscev lo rivelo’ a spizzichi e bocconi ad alcuni suoi stretti collaboratori. Al riguardo una premessa: le condizioni atmosferiche. L’inverno del 1953 a Mosca era particolarmente freddo. Negli utlimi giorni di febbraio c’erano state abbondanti nevicate e venti siberiani avevano flagellato la steppa. Gli spalatori erano apparsi da poco per le vie della capitale moscovita, ma un’ondata di gelo provoco’ non pochi ritardi all’opera degli spazzaneve. Dunqu non era inusuale assistere al blocco delle strade per via di enormi mucchi di neve ammassata. La notte del primo marzo fu il momento peggiore. Alla chiusura degli uffici i cittadini moscoviti si rinchusero in casa. Kruscev era andato a letto, ma era sveglio quello il telefono squillo’. Era mezzanotte. “Compagno Kruscev, parla il comandante della guardia del compagno Stalin – disse l’interlocutore dall’altra parte della cornetta -. Siete pregato di recarvi subito nella sua dacia”. Kruscev telefono’ subito all’autorimessa del Cremlino perche’ gli mandassero una macchina. Anche la moglie di Kruscev, Nina, si alzo’ preoccupandosi di dire al marito di mettersi due maglie per proteggersi da freddo. Prima di uscire Kruscev bevve due bicchieroni di vodka. Poi si reco’ verso l’automobile che era pronta davanti al portone. Alla prima svolta giungendo sulla piazza di Arbat, nonostante l’autista andasse andagio, la macchina sbando’ e una ruota urto’ contro il marciapiede. Fu l’occasione per accorgersi che in quella notte buia e fredda non era solo Kruscev a recarsi nella “dacia” di Stalin. Le automobili, compresa la sua, erano sette. Tutte dirette nel medesimo posto. Si trattava di tutti i membri del Presidium: Molotov, Beria, Malenkov, Bulganin, Kaganovich, Voroscilov e naturalmente lui, Kruscev.
Il principale timore di Kruscev fu quello della guerra. “Forse Stalin aveva preso la terribile decisione di fare la guerra all’America?” penso’ Kruscev. L’Armata Rossa non era pronta per un eventuale conflitto. Per un attimo egli ritorno’ al 1944. Era un febbraio e Kruscev si trovava sul fronte ucraino quando ricevette l’ordine di andare subito al Cremlino. Per fare prima il generale Kruscev chiese un aereo, ma le condizioni climatiche a Mosca non permettevano l’atterraggio del velivolo. Cosi’ dovette fare il viaggio dal fronte ucraino fino a Mosca con l’automobile. Kruscev rievoca a Georges Kessel quella notte di guerra del ’44:”Il mio aiutante ed io fummo condotti in un’altra dacia, piu’ vicina a Mosca. Io solo fui ammesso nella stanza di Stalin. Stava seduto dietro un grande tavolo di legno bianco coperto da carte topografiche e di bottiglie di vodka, molte delle quali erano gia’ vuote”.
Kruscev si sedette davanti a Stalin ed iniziarono a dialogare sulla situazione militare e nel frattempo non smisero di bere pesantamente vodka, tanto da far dichiarare a Kruscev stesso, sempre nell’intervista concesso a Epoca, di aver pensato tra se e se:”Nikita, mantieniti lucido. Ora ti dara’ degli ordini e tu dovrai ricordartene ed eseguirli, quali che siano. Eseguirli, se no per te sara’ finita”. Il racconto del generale prosegue nel suo ricordo a dieci anni dalla morte del dittatore:”Dovettero accompagnarmi sino alla macchina. Stavo malek ma non tanto per vodka, quanto per la vergogna di farmi vedere in quello stato, io, il generale responsabile del fronte ucraino, dai soldati della guardia e dal mio aiutante di campo, un valoroso coperto di ferite e di medaglie. Non erano i singhiozzi dell’ubriaco quelli che, sulla via del ritorno, egli senti’ standosene seduto accanto all’autista. Io singhiozzavo di vero pianto. Piangevo per quelle decine, centinaia di migliaia di giovani che avrei dovuto mandare al massacro per obbedire agli ordini di Stalin. Aveva deciso di scatenere una serie di offensive non coordinate, assolutamente inutili”.
Per Kruscev rifiutarsi di obbedire avrebbe significato la sua condanna a morte. Nessuno tra i piu’ vicini collaboratori di Stalin aveva mai osato di rifiutarsi. Neppure Beria che teneva tutti sotto scacco con i suoi poliziotti e le sue spie. “Noi non potevamo far altro che obbedire. E aspettare – sosteneva Kruscev nell’intervista di Kessel -. Ma questa attesa di anno in anno diventava sempre piu’ insopportabile”.
Quella notte dell’1 marzo del 1953 mentre si recava al suo appuntamento con Stalin, Kruscev non poteva fare a meno di ripensare a tutto a questo. Poi le sette automobile raggiunsero il luogo della residenza invernale dove dimorava Stalin. Una struutra fatta costruire nel XVIII secolo da uno dei favoriti della Grande Caterina di Russia, il conte Orlov. Tra le voci che circolavano di piu’ sul conto di quella residenza, la piu’ insistente era quella che sosteneva la ricostruzione dell’edificio da parte di Stalin adeguandolo ai suoi gusti e soprattutto puntando molto sulla sicurezza.
I sette fedelissimi di Stalin percossero il viottolo che dalle mura di cinta ricoperte di filo spinato e corrente elettrica portavano dall’ingresso fino alla dacia dove dimorava il dittatore sovietico. Il percorso era pieno di curve, alcune delle quali nascondevano delle mine antiuomo. Ad un tratto i sette furono bloccati dalla guardia personale di Stalin. Si trattava dei caucasiani, militari che prendevano ordini solo da Stalin. Lo stesso Beria, che era il capo supremo della polizie e delle milizie, fu perquisito coem tutti gli altri, Kruscev compreso. La paura di Stalin, cosi’ come rivelava il generale, era quella che “uno di noi potesse nascondere un’arma”. Questo il ricordo di Kruscev:”Il nostro Stalin, il compagno che avevamo conosciuto coraggioso sino alla temerita’, di cui avevamo amjirato le eccezionali qualita’ e apprezzato la profondita’ e la giustezza di vedute, colui che aveva preservato il Partito dagli scismi e lo aveva difeso contro gli avventurieri, colui che aveva salvato l’Urss e che, se non altro per la fede suscitata nel popolo russo, aveva vinto la guerra, si era a poco a poco ripiegato su se stesso e diffidava di tutti. L’incubo di morire assassinato – proseguiva Kruscev nel suo racconto -, si era impadronito di lui dopo la fine tragica di Kirov, suo figlio spirituale, e lo aveva portato alla follia”.
Parole forti che il generale Kruscev avvalorava ancor di piu’ citando la lettera della figlia Svetlana. La residenza dove dimorava Stalin era complicata: i visitatori solitamente veniva ricevuti sotto stretta sorveglianza del comandante delle guardie, in uno studio a pianterreno. Ma quella notte dell’1 marzo 1953 i sette personaggi convocati da Mosca non trovarono Stalin nello studio. A riceverli c’era solo l’ufficiale caucasiano. Fu l’ufficiale a raccontare gli eventi che avrebbero cambiato la storia dell’Urss. Come al solito, scrive il giornalista Kessel, alle sette di sera Stalin aveva ordinato la cena, ma alle dieci non aveva piu’ telefonato per il te. Per due ore i caucasiani avevano atteso che squillasse la suonerie, ma niente. Un fatto simile non era mai accaduto. Percio’ intorno a mezzanotte l’ufficiale caucasiano aveva corso il rischio di telefonare a Stalin. Senza risposta. Allora aveva deciso di telefonare a Mosca, alle sette persone piu’ fedeli di Stalin. Non voleva prendersi da solo la responsabilita’ di forzare la porta blindata. Fu Molotov a ordinare che la porta venisse aperta. Per aprire la porta blindata pero’ occorrevano sbarre di ferro e nella dacia non ve ne erano. Kaganovich, allora, mando’ a prendere dei picconi rompighiaccio che solitamente si portavano nel bagagliaio delle automobili. Cosi’ i caucasiani iniziarono l’operazione di scardinamento della porta. Finalmente, quando la porta si spalanco’, il gruppo si addentro’ nel corridoio, con il fiato sospeso, aspettandosi di udire la voce di Stalin. Ma li accolse un silenzio tombale. Bisogna andare avanti e sfondare le altre tre porte delle altre tre stanza dove solitamente il dittatore si ritirava. Appena la porta della prima stanza si apri’, l’ufficiale che era avanti a tutti si arresto’ di colpo, quasi impietrito. Allora Beria lo spinse ed entro’.
“Io – racconto’ Kruscev al giornalista Kessel – stavo proprio dietro a lui. Ed ecco quello che vidi: Stalin, vestito con l’uniforme di maresciallos, giaceva sul pavimento a faccia in su. Alle mie spalle gli altri avevano fretta di vedere e spingevano per entrare nella stanza. All’improvviso, trionfale, stridula e penetrante, si udi’ la voce di Beria:il tiranno e’ morto, morto, morto!”.