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Licosa nel Golfo di Salerno: la piccola isola dove vissero i giganti

Punta Licosa è collocata sull’estremità nord-occidentale della Penisola omonima della Campania, che chiude a Sud il Golfo di Salerno. Chiamata dagli antichi “Enipeum” o “Promontorio di Poseidone”, la Punta sarebbe stata toccata anche dal Principe Enea, durante il suo viaggio in Italia, così come ricordò Publio Virgilio Marone nel poema l’Eneide.  Denominata anche “Punta delle Sirene”, secondo la mitologia Greca, deve il suo nome attuale alla leggendaria Leucosia[1], una sirena che vi si sarebbe uccisa, lanciandosi da una rupe, per non essere riuscita ad attrarre Ulisse col suo dolce ed ingannevole canto. Altra versione del mito indica che le Sirene, le quali non erano riuscite a provocare il naufragio di Ulisse (che si era premunito, facendosi legare all’albero della nave e turare con la cera le orecchie dai compagni), si sarebbero date la morte precipitandosi in mare. A questo punto, i loro corpi sarebbero stati trasportati dalle onde fino a raggiungere le spiagge di Terina, Napoli e di Punta Licosa, presso Poseidonia. Ricordata, quindi, da Omero nella sua “Odissea”, Leucosia dà anche il nome ad una isoletta, poco più di una lingua di terra, sita di fronte all’omonima Punta al cui centro campeggia un bianco faro da costa[2].

Situata in una zona disseminata di secche e di scogli pericolosi, l’isola e la Punta di Licosa, abitate sin dall’epoca classica, sono state testimoni di numerose tragedie del mare, di fatti storici poco conosciuti – tra i quali quello che ricostruiremo oggi – ma soprattutto della vita che vi hanno vissuto generazioni di pescatori, di corallari e di addetti alle tonnare. Crocevia dei transiti e dei commerci marittimi da o per la Grecia antica ed in seguito per Roma, l’area è stata teatro di numerosi affondamenti, i quali hanno lasciato tracce concrete negli stessi fondali. Lo documentano i continui ritrovamenti di resti di navi romane, alcune delle quali d’età imperiale, individuate spesso ancora con i loro carichi di anfore ed altri oggetti di vasellame. Le navi romane, molte delle quali dirette a Napoli, ma anche nel vicino porto militare dell’odierna San Marco di Castellabate, s’inabissavano nei pressi o largo dell’isolotto di Licosa, spesso a causa delle tempeste marine, cagionate dal forte vento di libeccio, ma anche dalla mancanza di una qualsiasi forma documentata di segnalazione[3].

Occupata dai Saraceni nel 845 d.C.[4], la località fu anche teatro di numerosi scontri navali e terrestri, alcuni dei quali decisivi, come quello dell’agosto 1806 che vide contrapporsi da un lato gli anglo-napoletani e dall’altro i franco-corsi fedeli ai nuovi occupanti. La sua importanza strategica, ma anche la sua delicata posizione geografica, che ne aveva fatto uno dei tratti costieri fra i più temuti dai naviganti, l’ha legata per secoli alle vicende delle varie Marine da guerra, che in essa vi sin sono alternate da tempo immemorabile: dalla Marina di Roma a quella Angioina ed Aragonese, da quella Spagnola a quella del Regno di Napoli, dalla francese a quella inglese, alla quale, nel settembre 1943, spettò l’ultimo atto di guerra, con l’inevitabile affondamento del glorioso “Regio Sommergibile Velella[5].

 Licosa, l’isola dei giganti

Antica stampa che illustra l’evoluzione della specie

Può sembrare una banalità il doverlo precisare. Tuttavia, ricordiamo che per gigante s’intende quell’essere, dall’aspetto umano, caratterizzato da una incredibile statura e forza: essere del quale se ne ha traccia sia nelle leggende mitologiche, sia nel folclore e nelle fiabe di molte fra le culture millenarie del Pianeta, ma anche in vecchi testi, come nel caso che stiamo per trattare. È ovvio che quanto appare, oggi, in Internet riguardo a presunti ritrovamenti archeologici, in varie parti del mondo, è falso e fuorviante, anche perché è risaputo – e questo già nel passato – che la credenza popolare riguardo ad una reale esistenza di esseri umani “giganteschi” è stata molto spesso “avvalorata” dai ritrovamenti casuali di ossa di animali preistorici, erroneamente attribuite a popolazioni primitive, dotate di così elevata statura. Grazie agli studi della moderna Paleontologia sappiamo di certo che è errata anche la convinzione secondo la quale, sin dall’antichità, gli uomini vissuti in quei contesti storici fossero caratterizzati proprio dalla statura, molto superiore alla nostra. Non solo, ma proprio ai Giganti vengono attribuite – sempre secondo le tradizioni popolari – anche le realizzazioni di strutture edilizie di elevate proporzioni, come i famosi “Dolmen” e i “Menhir”, i megaliti più famosi. Alle leggende popolari, molto spesso affiancate sia dalla letteratura (ricordiamo tutti Polifemo) che dalla stessa iconografica classica, si sono affiancate notizie tratte da sporadiche emergenze archeologiche, peraltro ancor prima di aver sottoposto le parti di scheletri alle opportune analisi di laboratorio.

Resti di Giganti vengono, quindi, segnalate ancora oggi, ed in varie parti del mondo, peraltro rese ancor più credibili attraverso il ricorso a fotografie realizzate artificiosamente. Ma la cosa che maggiormente dovrebbe far riflettere è che notizie simili sono state riportate, sia nei libri scientifici che nelle riviste dell’epoca, anche in tempi che oggi potremmo definire “non sospetti”, tempi nei quali non si cercava di “abbindolare” l’opinione pubblica, ma solo di informarla di quanto accadeva, anche nei posti più lontani del Pianeta, oltre che nella nostra stessa Penisola, come nel caso di Licosa. Che sull’isoletta di Licosa fossero stati rinvenuti resti umani attribuiti ad esseri giganteschi ne fece cenno, per la prima volta in assoluto, nel 1745, Giuseppe Antonini, Barone di San Biase, in un suo poderoso lavoro dedicato alla Lucania. In un passo dell’opera, nella parte relativa alla descrizione dell’isola di Leucosia, si apprende che: <<…volendo alcuni Cappuccini intorno all’anno MDCXCVI (1696) fabbricare sull’isola un picciol Ospizio per quei Frati, che venivan da Sicilia, e da Calabria (di cui mai più non fu in appresso parlato) nello scavare le fondamenta, scoprirono alcune, per verità antichissime ruine, la maggior parte d’opera laterizia, che minutamente da me più volte considerate, altro non mi son parute, che reliquie di un solo edifizio, appena distinguendosi perché vestigia di un atrio sulla parte, che riguarda le Sirenuse, di grosse mura formato […] Nell’occasione dell’accennato scavamento vi si scoprirono vari sepolcri, entro dè quali, cadaveri di prodigiosa, non mai da noi veduta grandezza si ritrovarono; e solo tre teschi interi ne furono cavati, quelle sorse, che meno all’umidità erano istati soggetti. E per verità in vedendoli, più che meraviglia, orrore grandissimo recavano. L’altre ossa, per quanto mi narrò chi fu presente, quasi in polvere si ridussero. Ma d’altro canto ancora se n’osservava quantità grandissima ammonticchiata, e quasi fattone un corpo solo>>[6].

Ma l’Antonini, nel proseguire la narrazione della vicenda, ci da anche altre informazioni a riguardo, evidenziando in nota (2) che il Barone del Galdo, che a quei tempi era il Signore di Castellabate: <<…uomo di molta verità assicurommi aver egli veduto in una grotta scoverta all’incontro la Licosa due tibie umane di due palmi l’una lunga>>. Aggiunge, infine, che dei crani recuperati a Licosa, uno fu dato al Cardinal Noris[7], mentre un altro fu mandato al Padre francescano Domenico Basile <<…conosciutissimo matematico del Monistero della Sanità di Napoli, ed a tutti fu lecito vederlo, e dove io il viddi più volte, essendo all’intutto un ragazzo, fino a che donollo al Viceré di Napoli Duca di Ascalona nel 1706. Questi teschi mi resero persuaso esservi già un tempo stati de Giganti, se non di quella prodigiosa eccessiva grandezza…>>[8]. La notizia riportata dall’Antonini, nella sua dotta pubblicazione suscitò, come è facile intuire, la perplessità di non pochi studiosi, storici, archeologi e letterati dell’epoca, tra i quali Pasquale Mignone, i quali non lesinarono durissimi attacchi all’autore[9]. Contro il Mignone e in difesa dello zio, intervenne il noto Francesco Mazzarella Farao[10], il quale fece pubblicare, in appendice alla “La Lucania”, edizione 1797, una “Lettera di Francesco Mazzarella Farao sull’esistenza dé Giganti, negata dal Magnoni”: un saggio di grandissimo interesse storico, soprattutto riguardo alle vicende mitologiche legate proprio ai Giganti, ma che certamente non ne avrebbe comprovato l’effettiva esistenza, almeno a Licosa[11].

Quel che rimane oggi dell’isola Piana di Licosa

Qualche anno dopo, in un testo edito a Milano nel 1804, cogliamo la seguente citazione, nell’ambito della descrizione fisica dell’isola e della punta della Licosa: <<È meraviglia, che voi non abbiate detto, che quell’ossa dè Giganteschi cadaveri, che in quell’isola nell’occasione dell’accennato scavamento, asserite essersi trovate, fussero di quei miseri, che dal lusinghevole canto delle Sirene restarono morti: dicendo Omero nel lib. XII, v. 45, allorchè parla delle Sirene>>[12]. Nove anni dopo, la questione fu nuovamente ripresa da un seguitissimo quotidiano Milanese, in una corrispondenza pubblicata nella rubrica “Varietà”. Nel pubblicizzare l’opera editoriale del grande biologo e naturalista francese, Georges Cuvier riguardo agli ossami fossili, il giornalista riprese anche la storia del ritrovamento di Licosa, citandone ovviamente la fonte (l’Antonini). In tale contesto, il redattore osservò giustamente: <<Gli eruditi di quel tempo non videro altro in qué teschi ed in quelle ossa, che avanzi di antichissimi giganti, come gli avea veduto Flegone, Tralliano e Fazzello in altre parti d’Italia e di Sicilia. Ma forse è da temere, che per poca pratica in qué tempi delle scienze naturali abbiano essi confuso le ossa di grandi bestiami con quelle degli uomini, e sognato avessero di vedere Anteo, Polifemo, Pallante ed altri giganti. Sarebbe lunga la storia, se si volesse far racconto di tante ossa e denti di straordinaria grossezza, che in qué miserabili tempi non solo a giganti furono attribuite, ma di più à medesimi santi sugli altari adorati>>[13]. Di lì a qualche anno, il dato sarebbe stati riportato anche nei Dizionari Geografici, per quanto sotto forma di mera curiosità storica, proposta sempre col condizionale[14]. Altro riferimento ai Giganti di Licosa porta la data del 1879 e la troviamo in un testo dedicato alla storia d’Italia, ove ci si limita, tuttavia, a ricordare – senza commento alcuno – e nell’ambito di un flash dedicato per l’appunto a tali esseri enormi, il semplice ritrovamento del 1696[15]. Una diecina di anni dopo, la storia fu ripubblicata in una rivista storica, ma i contenuti riproducevano essenzialmente in concetti espressi dalla rivista del 1813[16]. Da quel momento in poi, la leggenda dei Giganti è stata sempre ricordata, in tutti i contributi editoriali dedicati alla storia del Cilento, editi sia localmente che non.

 Emergenze archeologiche

 Fermo restando che, almeno per chi conosce la storia di Licosa, l’estensione dell’isola nel 1696 non era certo quella attuale, resa oggi un mero fazzoletto di terra a causa dell’azione degli elementi della natura (forti venti e continui fortunali marini), sembra alquanto impossibile che, sia sull’isola che nel Capo di Licosa, nonostante l’area sia stata da sempre abitata, ma soprattutto coltivata, non ci siano stati altri ritrovamenti del genere. Seguendo le leggende popolari, alcune delle quali raccolte dallo stesso autore del presente saggio, sembrerebbe, in verità, che di ossa gigantesche se ne siano trovate un po’ ovunque, in quei fertili terreni che annualmente venivano solcati dagli aratri trainati da buoi. Ma, seguendo la ragione ci pare di capire che si trattava di ossa di animali, tra cavalli e bovini, abbondantemente utilizzati nel Cilento, praticamente sino agli anni Sessanta del Novecento, seppelliti sotto terra, come era allora tradizione. Fu, tuttavia, nei primi anni Settanta, sempre del Novecento, che per un breve flash temporale rispuntò in auge la storia dei Giganti di Licosa. In una fredda giornata d’inverno (forse del 1971 o 1972), dopo un fortunale, una piccola frana scoprì, sul costone interno dell’isoletta di Licosa, tra il moletto in cemento armato e il bianco Faro della Marina, una scheletro di un biancore straordinario. Fu solo dopo l’intervento dei Carabinieri e della Guardia di Finanza di Santa Maria di Castellabate, delegati dal Pretore di Agropoli, che fu possibile riesumare la salma. Si scoprì che si trattava di uno scheletro di un uomo, peraltro tutt’altro che gigantesco, misurando circa 1,60 cm. Gli abitanti di Castellabate non avrebbero, tuttavia, mai saputo nulla, riguardo all’esito negli esami necroscopici eseguiti dal medico legale, presso il Cimitero del centro Cilentano, ove quei poveri resti furono, in seguito, deposti nell’apposito ossario. Al di là di tale epilogo, rimase ferma, almeno nella convinzione popolare locale, che i Giganti siano veramente esistiti a Licosa e che, chissà, un giorno, da qualche parte, rispunteranno altri crani di enorme grandezza. È, questa, una speranza che in molti e, talvolta, per altri motivi, hanno ancora, come ci dimostra la leggenda di Nessie, che richiama sul lago di Loch Nes, in Scozia, migliaia di turisti l’anno. Ma questa è un’altra storia…

 Col. (a) GdF Gerardo Severino
Storico Militare

[1] Secondo il mito greco, Leucosia era il nome di una delle tre ancelle della Dea Persefone, con la quale vivevano nell’antica Hipponion, città che risponde all’odierna Vibo Valentia, in Calabria.

[2] Sull’argomento si consiglia Fernando e Amedeo La Greca, Ogliastro Marina e Licosa: note di storia antica e medievale, Acciaroli, Edizione del Centro di Promozione Culturale per il Cilento, 2010.

[3] Nel 1988, al largo di Licosa sono stati rinvenuti i copiosi resti di una nave oneraria romana colta dalla tempesta, così come anni prima erano stati rinvenuti ceppi di ancore appartenute a navi militari romane in uso in età imperiale.

[4] Sullo specifico argomento delle invasioni barbariche e sull’insediamento dei Saraceni a Licosa, così come per altri importanti elementi sulla storia della località e di Castellabate in generale vgs. Gaetano D’Ajello, Castellabate e le sue immagini, Acciaroli, Centro di Produzione Culturale per il Cilento,  1995.

[5] Vgs. Gerardo Severino, La punta e l’isola di Licosa nella storia militare, marittima ed economica d’Italia, Acciaroli, Edizione Centro di Promozione Culturale per il Cilento, 2016 ed ancora Gerardo Severino, 7 settembre 1943. L’affondamento del sommergibile Velella e la morte del piccolo “Scheggia”, in www.giornidistoria.net, 7 settembre 2023.

[6] Cfr. Giuseppe Antonini, La Lucania. Discorsi di Giuseppe Antonini Barone di San Biase, Napoli, Appresso Benedetto Gessari, 1745, pag. 465.

[7] Enrico Noris (Verona, 29 agosto 1631 – Roma, 23 febbraio 1704) è stato uno storico e cardinale italiano. Ai tempi del presunto ritrovamento a Licosa ricopriva l’incarico di Cardinale di Sant’Agostino, già Primo Custode della Bibloo0teca Vaticana e, infine, Bibliotecario di Santa Romana Ecclesia.

[8] Cfr. Giuseppe Antonini, op. cit., pag. 465.

[9] Cfr. sunto della questione Giganti di Licosa in Opuscoli di Pasquale Magnoni, Seconda edizione, Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1804, pag.57.

[10] Francesco Mazzarella Farao (1746-1821), letterato e grecista di grande fama.

[11] Cfr. Cfr. Giuseppe Antonini, La Lucania. Discorsi di Giuseppe Antonini Barone di San Biase, Napoli, Appresso Francesco Tomerli, 1797, pag. 1 e ss. dell’Appendice.

[12] Cfr. Lorenzo Manini, Memoria Politica e Militare sopra l’invasione e la difesa della Gran Bretagna e riflessioni su l’invasione di Francia del Generale Lloyd Inglese, Milano, Pirotta e Maspero Stampatori-Librari, 1804, pag. 61.

[13] Cfr. Corrispondenza dal titolo “Varietà”, in <<Il Corriere Milanese>>, n. 221, 15 settembre 1813,  pag. 883.

[14] Cfr. voce “Licosa”, in G. B. Carta, Dizionario Geografico Universale, Napoli, Stamperia e Cartiere de Fibreno, 1843, pag. 474.

[15] Cfr. Carlo Dotto dè Dauli, L’Italia. Dai primordi all’evo antico, Tomo Primo, Forlì, Tip. e Lit. Democratica, 1879, pag. 90.

[16] Cfr. “Gli ossami fossili del Golfo di Salerno”, in <<Arte e Storia>>, n. 2, 31 gennaio 1891, pag. 14.