Riccardo Giusto il primo caduto italiano della Grande Guerra
Un giovane di vent’anni con i sogni e le speranze di un ragazzo normale che ai primi del Novecento si affacciava alla vita. Questo era Riccardo Giusto, classe 1895, di professione facchino, destinato come milioni di suoi coetanei a prender parte a quella “inutile strage” che fu il primo conflitto mondiale. Chiamato alle armi il 18 dicembre 1914 fu aggregato all’8° Reggimento alpini e inquadrato nella 16ª Compagnia del Battaglione “Cividale” il 16 gennaio 1915, come si legge dal suo foglio matricolare custodito presso l’Archivio di Stato di Udine. Dopo la mobilitazione del 4 maggio 1915, giorno della rottura del Patto di alleanza dell’Italia con gli Imperi Centrali, le truppe del Regio Esercito si spostarono subito verso i confini sulle pendici del Kolovrat.
Il 24 maggio, iniziate le ostilità il “Cividale” si mobilitò per travolgere la prima resistenza nemica e occupare Cappella Sleme e Monte Jeza. “Il confine era poco difeso, tanto che il Regio Esercito in un paio di giorni arrivò a Caporetto e a Dresenza, l’attuale Dreznica, ai piedi del Krn – Monte Nero, dove i soldati dell’Impero Austro-Ungarico avevano organizzato sulle quote dominanti la difesa dell’importante catena montuosa che dava accesso a importanti vie di comunicazione con l’interno – spiega Sergio Spagnolo, esperto di storia militare del Comitato Pro-Plava per il recupero della chiesetta di San Luigi -. Dal confine a Caporetto erano state lasciate indietro solo poche pattuglie della gendarmeria o di Standschutzen, ossia la milizia volontaria formata da anziani cacciatori o tiratori. Quando il battaglione degli alpini attraversò il confine a Passo Solarie trovò alcuni gendarmi che aprirono il fuoco”. Un proiettile colpì Riccardo Giusto (per un errore della storia chiamato Di Giusto e non Giusto come invece risulta dal foglio matricolare, nda).
Nato a Udine il 10 febbraio Giusto non aveva scelto di andare in battaglia e non aveva visto la guerra. La sera del 23 maggio 1915 un altro alpino della “Cividale” come lui, il poeta e scrittore Chino Ermacora, annotò come l’Italia pose fine alla sua neutralità per entrare nel conflitto. “Era giunto un dispaccio al comandante del battaglione e gli ufficiali si radunarono a rapporto – scrisse Chino Ermacora alla fine della guerra -. Al tramonto, squillò l’adunata. L’ordine fu di tenersi pronti e di dormire vestiti”. Poche ore dopo, non era ancora mezzanotte, squillò la sveglia e l’immediato ordine di fare silenzio: “Guai a chi accende i fiammiferi!” ordinarono ufficiali e sottufficiali passando per le file dei soldati adagiati per terra, sul fieno. Secondo la descrizione di Ermacora, pubblicata su La Stampa del 24 maggio 1965, gli alpini iniziarono al buio a scendere più a valle e a intravedere le masse oscure delle case e degli alberi, il biancore della mulattiera. “Assistemmo per non so quanto tempo alla sfilata di uno o due battaglioni piemontesi – prosegue nel suo racconto Ermacora – : si trattava di Alpini che avevamo conosciuto di sfuggita qualche giorno innanzi. Marciavano in silenzio. Si avvertiva soltanto il rumore secco delle scarpe ferrate sui ciottoli. Finalmente ci accodammo in fila indiana. Era scoppiata la guerra, ma nessuno lo sapeva”. Poi due colpi di fucili. La colonna degli alpini si arrestò e qualcuno esclamò: “Che è stato?”. La domanda passò di bocca in bocca, dall’uno all’altro, senza risposta. Una risposta che poco dopo arrivò vicino alla Cappella Sleme: sul ciglio del sentiero, riverso nell’erba, un soldato austriaco gemeva. Era un adolescente e invocava la madre lontana: “Meine Mutter Meine Mutter”. Poi altri colpi, stavolta più fitti.
Il passaparola andò veloce: ”E’ caduto uno dei nostri”. Si trattava del soldato Riccardo Giusto da Udine. Si trovava riverso supino sull’erba mentre due compagni erano curvi su di lui. Il soldato Giusto era stato colpito in fronte sotto i suoi capelli biondi. Un filo di sangue gli si fermò in un’orbita. I suoi occhi castani si erano chiusi per sempre. Morì così il primo caduto italiano della Grande Guerra. Successivamente lo condussero a valle e le sue spoglie furono raccolte dal Cappellano di San Volfango, don Giovanni Guion, nativo di Biacis e sepolte nel cimitero del paese per essere in seguito traslate nel cimitero militare dove trovarono posto un migliaio di altri soldati caduti in quella zona di operazioni.